Kabul come Bagdad? No, come Bogotà
Emanuele Giordana - Lettera22
Reportage da una città che riserva molte sorprese. Un popolo di esuli che, com’è accaduto anche a Bogotà, è formato da un esercito di sfollati in fuga dalle aree del conflitto.
Kabul – Ray-Ban a specchio e colletto esagerato sulla camicia candida, bianca, come la "Corolla" con i sedili pavimentati da una finta pelliccia. Pantaloni a zampa di elefante e scarpe lucide a punta. Un paio di cellulari. Lo sguardo da venticinquenne scafato. Non fosse per tutto questo svolazzare intorno di salwar kamiz, volteggiar di turbanti e lunghe barbe a incorniciare tratti indoeuropei anziché i volti indigeni dell'altopiano, sembrerebbe di essere nella zona Rosa di Bogotà, calle 82, o al barrio La Perseverancia dietro alla Plaza de Toros, dove i ragazzi di vita colombiani vivono la loro stagione da pandilla di quartiere o il loro prossimo futuro da killer professionisti. Ma qui siamo a Kabul, a Jodi Maiwand, al Parco di Shar-e Naw o nei dintorni della grande moschea, a ridosso del municipio della capitale, che i sauditi hanno voluto costruire e che è ormai giunta alle battute finali. E se i grandi centri commerciali, sorti come funghi in questi sei anni di guerra, assomigliano assai di più ai loro confratelli edilizi di Abu Dhabi che non al Centro comercial Calle Real della Candelaria, l'odore del narcodollaro qui, come a Bogotà, sembra trasudare tra questi almacen che vendono Rolex d'oro e telefonini di ultima generazione con la sola differenza che a Kabul si chiamano ancora bazar.
Che l'Afghanistan assomigli sempre di più alla Colombia, non è solo una sensazione che nasce spontanea nel notare questi cambiamenti nemmeno tanto sotterranei nella nascente società del benessere (per pochi) che avvolge Kabul. In città c'è denaro. E ce n'è tanto. Ma non possono essere soltanto i quattrini sborsati dalle tasche della comunità internazionale, che sente il peso di una colpa collettiva per non essere riuscita a vincere la guerra agli straccioni con sandali e kalashnikov. A Kabul girano i soldi del narcotraffico e nessuno ne fa mistero. Nemmeno il ministro dell'Interno che, qualche tempo fa, ha esplicitamente accusato parlamentari e signori della guerra di essere coinvolti in un business che, agli inizi del 2007, aveva cominciato a mieter vittime anche nello stesso Afghanistan con un milione di tossicomani tra cui 60mila bambini sotto i quindici anni. Certo son stime da tenere sotto scrutinio. L'oppio non c'è da ieri in Afghanistan e, in certe regioni del paese, è un buon viatico per il sonno se la pancia è vuota e il latte di mamma è povero di sostanza. Ma qualcosa sta cambiando in questo paese da medioevo islamico. E se alla salwar kamiz, l'abito tradizionale, si sostituisce la t-shirt tutto muscolo e la camicia col collettone aerodinamico, qualcosa sta forse cambiando.
Tutti sanno che oggi l'Afghanistan è il primo produttore d'oppio del pianeta. I poveri generali birmani, signori incontrastati del grande business, condiviso con ammiccanti funzionari doganali thailandesi e potenti signori della guerra locali, hanno perso la partita.
Con 200mila ettari coltivati a papavero e una produzione di 8mila tonnellate d'oppio nel 2007, si fa presto a fare tana. E' che in Afghanistan c'è anche la guerra e questo complica le cose. E avvicina la debole democrazia di Karzai a quella non meno fragile di Uribe. Non c'è la selva in Afghanistan e l'oppio non è la coca, ma le similitudini sono tante.
Oppio e guerra, narcotraffico e guerriglia
Tanto per cominciare l'oppio si produce in gran quantità nelle aree di conflitto, nel riottoso Sud dell'Helmand e di Kandahar dove si coltiva quasi il 70% del papavero afgano. E se produrre oppio è un buon affare per i magri introiti dei contadini, è ancora un più grasso business per i proprietari terrieri e per il loro nuovi guardiani del tesoro: i talebani.
Secondo le ultime stime dell'Ufficio dell'Onu contro crimine e droghe, i talebani hanno guadagnato almeno 100 milioni di dollari l'anno scorso imponendo una decima del 10% ai produttori. Non è chiaro come Unodc sia arrivato a questa stima e se l'imposta sia stata incassata direttamente dalle mani dei produttori o da quelle dei proprietari terrieri, ma non son proprio noccioline. Le cifre all'ingrosso parlano di un business da almeno un miliardo di dollari l'anno e dunque il 10% fan 100 milioni. Ma ci sono anche altre strade. Secondo l'Unodc c'è uno scambio diretto tra la narco tangente e un sistema di protezione che va dalla garanzia sul raccolto alla scorta ai laboratori di trasformazione e alle carovane che vanno verso Pakistan, Iran e probabilmente i territori dell'ex Unione sovietica. Il narcotraffico finanzia ovviamente la guerra: "Più ci si va vicino – ha detto David Belgrove, a capo dell'antinarcotici dell'ambasciata britannica di Kabul – più si vede il rapporto tra insurrezione e traffico di droga: molte delle loro armi e munizioni vengono finanziate dal narcotraffico".
Nonostante l'aumento dell'offerta, le variazioni dei prezzi non sono significative. Si va, a prodotto fresco, dai 108 ai 90 dollari al chilo. Ma la stessa quantità raffinata e trasformata in eroina vale fino a 2.500 dollari. Soldi. Fino a qualche anno fa le raffinerie stavano in Pakistan, nelle aree tribali al confine tra i due paesi dove i pachistani sono etnicamente pashtun, come i loro confratelli afgani. Ma, sempre secondo Unodc, il 90% dell'oppio afgano viene ormai trasformato nello stesso Afghanistan. Una rete di connivenze protegge queste fabbriche, trincerate dietro le alte mura senza finestre delle abitazioni tradizionali, che producono valore aggiunto sul singolo chilo di oppiaceo.
Nel quartiere dei nuovi ricchi
A Kabul, nel quartiere di Wazir Akbar Khan, in una delle parti nuove della città, il narcotraffico si è fatto villa. Appariscenti magioni recintate con cemento armato e imbellite da tessere a mosaico colorate, colonnati e orpelli architettonici che mischiano gli stili più diversi pur che siano appariscenti. Terreno di conquista di ex mujaheddin che han preteso il pagamento della cambiale per aver vinto più di una guerra (contro i sovietici prima e contro i talebani di mullah Omar nel 2001), quest'area demaniale saccheggiata dalla nuova edilizia rampante sembra il segno manifesto di un legame ineludibile tra i signori della guerra che stanno a Kabul (spesso diventati signori dell'oppio) e i guerriglieri col turbante che, pur essendo sulla carta i loro nemici, fanno inevitabilmente parte della filiera. Ma né l'Unodc, così provvida di statistiche sulla produzione, né i centri studi britannici o statunitensi incaricati dei programmi di eradicazione, riescono a raccapezzarsi in questo puzzle. E del resto, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), che controllano i territori del centro sud colombiano, non avevano e hanno rapporti con i boss mafiosi di Bogotà e Medellin? E a loro volta i vari Pablo Escobar non avevano i loro padrini in parlamento e le loro amicizie nelle milizie paramilitari che poi con le Farc combattevano davvero? Rompicapo mosso dalla polvere bianca.
Ma se a Kabul si tirano probabilmente molte delle fila del narcotraffico, il grande buco nero è al Sud, nelle zone di produzione, guarda caso controllate dai talebani. Ma anche qui, come accaduto nella guerriglia di Colombia, dev'essere successo qualcosa. La forza del denaro sta forse diventando più forte di quella della fede e se il Pakistan o l'Arabia saudita sono diventati di manica stretta, ecco che i taleb – in origine fieramente contrari alla produzione di oppio – ora vi hanno puntato come cassa pronto contanti. Secondo i beninformati si starebbe inoltre facendo strada una nuova classe di duri (ma non più puri) che brandiscono volentieri il kalashnikov ma un po' meno il Corano. Il nuovo manifesto della fede è l'oppio. Che la fede fa forse venir meno.
Sul fronte della guerra, tutto sembra favorire questa nuova deriva che sta facendo dell'Afghanistan del Sud un narcostato nello stato. I talebani controllano, seppur con difficoltà, una larga fetta di territorio (che secondo alcuni sarebbe superiore addirittura al 50% del totale del paese) dove reclutano mujaheddin, amministrano contenziosi agrari e beghe famigliari e proteggono la produzione di oppio. Come fanno (ora assai meno) le Farc colombiane cui si attribuiva un controllo sul territorio ancora più vasto.
Nei quartieri dei sempre più poveri
Che la si guardi dai quattro punti cardinali, Kabul è una città con una periferia in espansione geometrica. Si dice, in assenza di statistiche certe, che l'area metropolitana della capitale contenga una popolazione di quattro milioni di abitanti. Un popolo di esuli che, com' è accaduto anche a Bogotà, è formato da un esercito di sfollati in fuga dalle aree del conflitto. Che giorno dopo giorno allarga le periferie ingrossandole con nuovi quartieri abusivi. Quelli che a Bogotà si chiamerebbero barrios marginales.
Kabul non è Bogotà e l'Afghanistan non è la Colombia, ma queste aree di illegalità urbana diffusa, senza servizi e con scarso controllo, sono i vivai migliori per una criminalità "moderna" di cui ora a Kabul c'è solo qualche vago segno. Non siamo ai protagonisti di "No nacimos pa' semilla" (Non siamo nati per lasciare eredi), i ragazzi delle bande – i pandilleros di Medellin – che confidarono a un gesuita, Alonso Salazar, negli anni Ottanta, le loro terribili storie di ragazzi di vita, già segnati da un destino che probabilmente aveva, dopo il denaro facile, un futuro segnato dal crimine come professione e da una bara cucita addosso come un vestito di sartoria che avrebbe appunto impedito loro di "lasciare eredi". Così, se Kabul deve assomigliare a un'altra capitale, e la storia del narcostato nello stato a quella di un altro paese, la capitale afgana assomiglia più a Medellin o Bogotà che non a Bagdad, e l'Afghanistan più alla Colombia che non all'Iraq, parallelo che invece va per la maggiore
In qualche misura gli americani, che sono molto attenti alle vicende afgane in relazione a quanto avvenuto in Colombia, sembrano averlo in parte capito anche se poi la linea ufficiale sembra molto ricalcata su una possibile speranza di successo di un "surge" all'afgana dopo che quello in Iraq, checché se ne dica, sembra essersi risolto nell'ennesimo insuccesso. Non è un caso se, nell'aprile del 2007, l'Amministrazione ha scelto come nuovo capo della diplomazia Usa a Kabul William Braucher Wood che, dal 2003 al 2007, era stato ambasciatore a Bogotà. Ma un editorialista del Boston Globe, proprio mentre si procedeva alla sua nomina, metteva in guardia sugli insuccessi americani in Colombia invitando Washington a non ripeterli in Afghanistan. I cento milioni di dollari l'anno investiti in Colombia nella lotta al narcotraffico, insistendo solo sulla distruzione delle piantagioni di coca e sul pugno di ferro, scrive Dan Restrepo, non hanno portato a molto. E al momento non c'è, aggiungiamo noi, una Ingrid Betancourt da liberare per portare a casa un successo che metta in luce la sempre maggior debolezza politica delle Farc. Una fragilità che per adesso i talebani, che pure hanno qualche problema interno, non sembrano dimostrare.
Tra Bagad e Kabul
Il facile paragone tra Bagdad e Kabul è uno dei tanti luoghi comuni che nasconde, purtroppo, un vuoto di strategia e un'inquietante primato dell'opzione militare che nasconde la pressoché totale assenza della politica nella gestione della guerra e di una ricostruzione che macina ogni anno diversi miliardi ma senza lasciare tracce evidenti e senza che gli afgani vedano grandi effetti positivi, se non per una fragile pacificazione di metà del paese, dalla presenza militare occidentale. Quel che gli afgani vedono è però quello che salta all'occhio a qualsiasi visitatore. Qualcuno fa soldi facili e in fretta come mai prima d'ora. E nonostante la città sia militarizzata e l'investimento nel settore militare si mangi nove milioni per ogni dieci spesi in Afghanistan dalla comunità internazionale, la rete criminale che gestisce il narcotraffico agisce quasi indisturbata. Lo sa bene il nostro giovinastro con la "Corolla" bianca che adesso ha appena ricevuto una telefonata sul suo Motorola. Devono essere arrivate buone notizie dal Sud del paese. Dove è appena finita l'epoca del raccolto. Chiude la portiera, sgomma e va.
Fonte: lettera22, Il Diario
04 agosto 2008
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