Josefa: i libici ci hanno picchiato
Internazionale
Picchiata dal marito e poi dai poliziotti libici, ha un unico timore: essere riportata in Libia.
Josefa ha occhi enormi, allungati e larghi. Mi guarda aprendo le palpebre lentamente. È sdraiata sul ponte della Open Arms. L’equipaggio ha messo dei giubbotti di salvataggio sotto alla sua schiena e l’ha coperta con dei teli termici che sembrano d’argento e d’oro. Il suo viso è sofferente, apre gli occhi per chiedere aiuto, li sgrana. Poi torna a chiudere le palpebre come per riposare.
“Sono del Camerun, sono scappata dal mio paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non potevo avere figli”, racconta Josefa (non Josephine, come si era detto inizialmente) con un filo di voce in un francese dolce. Si tocca la pancia. “Non potevo avere figli”, ripete. Ha il corpo robusto e le mani piccole ancora raggrinzite per essere stata in acqua tutta la notte.
Non riesce quasi a parlare, due occhiaie profonde le scavano gli occhi, le sue pupille sono di un nero intenso. Alza il braccio per salutarmi, poi mi stringe la mano. È ancora fredda, sembra che abbia i brividi. Giovanna Scaccabarozzi, la dottoressa italiana di Open Arms che da stamattina si sta prendendo cura di lei, dice che ora è fuori pericolo, ma è ancora sotto shock. Trema, non si riesce a tranquillizzare, sembra stanchissima.
Una flebo di soluzione fisiologica è appesa sul palo del ponte della nave: goccia a goccia entra nelle vene di Josefa per reidratarla. “Siamo stati in mare due giorni e due notti”, racconta. Non si ricorda da dove sono partiti e non sa dove sono i suoi compagni di viaggio. “Sono arrivati i poliziotti libici”, dice. “E hanno cominciato a picchiarci”.
Non si ricorda nulla di cosa è successo dopo e ha un unico timore. Non vuole essere portata in Libia. “Pas Libye, pas Libye”, ripete come in una preghiera, una litania sussurrata con un filo di voce. “Pas Libye”. Per tranquillizzarla i volontari le dicono che ora è al sicuro, che presto arriverà in Europa.
A turno vengono vicino a lei sul ponte per passarle un fazzoletto bagnato sulla fronte: ha i capelli pieni di una polvere bianca, forse un per un periodo è stata rinchiusa in un carcere senza potersi lavare. “Se avessimo tardato ancora qualche ora sarebbe morta anche lei”, afferma la dottoressa italiana originaria di Lecco che stamattina l’ha accolta sul ponte della nave spagnola e le ha diagnosticato una grave ipotermia.
Annalisa Camilli
Intrenazionale