Israele. Una società militarizzata abbraccia il suo esercito


Chiara Cruciati - il Manifesto


Cinquanta riservisti rifiutano di vestire l’uniforme, una goccia nel mare di una campagna anti-araba che da virtuale si fa reale: aggressioni fisiche in strada e social network per la propaganda.


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Israeli soldiers with armored vehicles gather in a staging ground near the border with Gaza Strip, southern Israel, Friday, Nov. 16, 2012. Fierce clashes between Israeli forces and Gaza militants are continuing for the third day.(AP Photo/Tsafrir Abayov)

 

Sembra lontano anni luce il movimento delle tende, nell’estate 2011, migliaia di israeliani in piazza contro le politiche sociali del governo Netanyahu. Mai si erano visti tanti manifestanti per le strade di Tel Aviv, protestare per il diritto alla casa ed un salario equo. Il consenso verso il premier era al minimo storico. Oggi ancora una volta il massacro di Gaza ha fatto il miracolo: apprezzamento alle stelle per le scelte dell’esecutivo, percentuali bulgare che chiedono di proseguire nell’offensiva via terra. Una solidarietà radicata che si incontra ovunque, nelle tv, sui giornali, per strada. Ora gli israeliani che tornano in piazza lo fanno per dimostrare vicinanza ai soldati. A Gerusalemme giovani raccolgono denaro da inviare ai soldati al fronte, mentre ai funerali degli uccisi partecipano in massa. Lunedì ad Haifa migliaia di persone hanno preso parte all’esequie del sergente Sean Carmeli, altri 30000 a quelle del soldato Max Steinberg , entrambi cittadini americani. A monte la colla che da decenni tiene insieme un popolo melting pot: gli israeliani arrivano da ogni parte del mondo, americani, polacchi, russi, latinoamericani, etiopi, iracheni. Non condividono la lingua né le radici culturali. A tenerli insieme, dal 1948, sono la religione ebraica ed il nemico comune. Le fondamenta di una società militarizzata come quella israeliana, dove la stragrande maggioranza dei cittadini veste l’uniforme, si induriscono sempre durante un operazione militare .Tutti soldati, tutti solidali con l’esercito, dove ci si forma, si cresce, si diventa israeliani. L’eco del patriottismo bellico risuona nelle parole della gran parte dei politici di centro e di destra. Ma risuona ancora più forte sui media: tv e giornali (fatta eccezione per il liberale Ha’aretz, molto più letto all’estero che non in patria) ridondano di editoriali ed  immagini che esaltano l’attività dell’esercito. Nella stampa dal Jerusalem post a Arutz Sheva fino al Ynet News (vicino al movimento dei coloni) non c’è spazio per le voci palestinesi.

Non tutti accettano il fiume di propaganda, l’hasbara israeliana: ieri 50 ex soldati hanno rifiutato di infilarsi l’uniforme da riservista, dopo la chiamata dell’esercito:.

Una goccia nel mare. Poco cambia anche nei social network, dove gruppi di sostegno all’esercito nascono come funghi. Su Twitter all’ashtag Gaza underattack hanno reagito con  Israelunderattack dove si sprecano appelli allo sterminio del popolo di Gaza.

Una violenza razzista che non resta virtuale: le aggressioni a palestinesi in Israele e a Gerusalemme sono aumentate in maniera preoccupante. Ultima in ordine di tempo, il pestaggio di due giovani, Amir Mazin Abu Eisha e Laith Ubeidat, ieri a Gerusalemme Ovest. Aggrediti e feriti da una ventina di israeliani nella centralissima Jaffa Road, sono stati arrestati dalla polizia perché accusati di aver minacciato i passanti con un coltello. Un caso non affatto isolato: sono ormai decine le denunce di aggressioni da parte di donne e ragazzi nella zona israeliana della città. Il clima di violenza e radicata propaganda tocca vette preoccupanti, infiammato dalle dichiarazioni di esponesti del governo e dalla stampa stessa. Tanto da spingere un gruppo di studenti a lavorare giorno e notte per controbattere alle imputazioni che piovono da ogni parte del mondo sullo stato di Israele. Nel college di Herzilya, l’unione degli studenti ha creato la “stanza della guerra”, un aula piena di computer in cui 400 volontari tentano di giustificare l’offensiva di fronte alle opinioni pubbliche mondiali nei social network. Un popolo intero, o quasi, stretto intorno al suo esercito.

Fonte: il Manifesto

25 luglio 2014

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