Israele. Il teatro delle ombre
Janiki Cingoli
L’inattesa vincitrice morale è certamente Tzipi Livni, con 28 seggi, contro i 27 di Netanyahu (resta però da scrutinare il voto di circa 200.000 militari), anche se le elezioni marcano uno spostamento a destra di Israele.
A favore della Livni ha giocato il suo essere donna, il suo viso relativamente nuovo. Ma ha giocato soprattutto la scelta per un voto utile, l’unico che potesse contrastare l’avanzata di Netanyahu. Persino un quotidiano di sinistra come Ha’aretz ha pubblicato un editoriale in suo favore. Ciò ha drenato voti alla sua sinistra, al Partito Laburista e al Meretz, che sono crollati ai minimi storici (rispettivamente 13 e 3). Si è trattato quindi di un travaso di voti all’interno del centro-sinistra, che tuttavia complessivamente è divenuto minoranza, con 55 seggi su 120. Ciò renderà difficile alla leader di Kadima la formazione di un governo da lei diretto.
Dal canto suo, il leader del Likud subisce un colpo ed esce ridimensionato nella sua figura. I voti gli sono stati sottratti dalla dura concorrenza di Yisrael Beiteinu, la formazione di estrema destra laica, espressione anche dell’elettorato russo, che ha raddoppiato i voti conquistando 15 seggi ed è divenuto l’ago della bilancia politica del Paese. Il suo capo ha condotto una campagna dai toni forti, in particolare contro la minoranza arabo-israeliana, accusata di slealtà verso lo Stato ebraico, assumendo talora connotati apertamente razzisti. Il suo approccio marcatamente laico ha d’altronde suscitato la condanna dello Shas, il Partito religioso sefardita alleato alla destra: il Rabbino Ovadia Youssef ha parlato di voti dati a Lieberman come di voti dati a Satana, anche per arginare una possibile perdita di voti a suo favore.
Il leader del Likud dispone sulla carta di una maggioranza di 65 seggi, il cosiddetto blocco nazionale, ma deve fare i conti con la rivalità tra Shas e Yisrael Beiteinu, poco disposti a convivere, ed anche con il consistente gruppo di ultradestri che sono stati eletti nella sua stessa lista, e rischia così di restare ingabbiato sul terreno politico e diplomatico.
Una maggioranza di quel tipo, così pesantemente sbilanciato sull’estrema destra, lo porterebbe ad uno scontro con la nuova amministrazione americana, che ha fatto della soluzione del conflitto israelo-palestinese una delle sue prime priorità. La Livni potrebbe certamente garantire una maggiore sintonia con il presidente Obama.
Pertanto l’ipotesi di un governo di unità nazionale, fondato sui due partiti maggiori e forse con una presidenza a rotazione, come all’epoca dei governi Shamir-Peres negli anni ’80, non è da escludere, e non a caso è stata la prima proposta avanzata da Kadima. Altro discorso è la sua funzionalità: l’esperienza del passato mostra che, efficace per i problemi economici del Paese, un governo di quel tipo rischia di diventare paralizzante ai fini del processo di pace.
Mente sulla scena si svolgono i primi frenetici contatti per assicurarsi quella vittoria che le elezioni non hanno indicato con certezza, nella realtà sono in corso altri processi, in larga parte contradditori con le dichiarazioni pubbliche: è un po’ come nel teatro cinese delle ombre.
Olmert infatti, che resterà in carica per i 45 giorni previsti per la formazione del nuovo governo, sta portando avanti stringenti trattative indirette con Hamas, mediate dagli egiziani, per arrivare al rilascio del soldato rapito Shalit, in cambio di prigionieri palestinesi (si parla di 1400), tra cui molti responsabili di gravi e sanguinosi atti terroristici. Nello scambio entrerebbe anche Marwan Barghouti, il leader della seconda intifada condannato da Israele a cinque ergastoli, che potrebbe divenire il nuovo leader di Al Fatah, promuovendo altresì la ricomposizione interpalestinese.
Parallelamente, sembra questione di giorni la conclusione dei negoziati, mediati dal potente capo dell’intelligence egiziana Omar Suleiman, per una tregua di 18 mesi con Hamas, estendibile successivamente ad altri 18, legata alla riapertura dei valichi di Gaza. E’ un po’ come se nel gioco dell’oca della guerra, così drammatico, si fosse ritornati alla casella di partenza, prima dell’offensiva israeliana. Con Hamas che vede riconfermato il suo controllo sulla Striscia e la sua popolarità ancora accresciuta, a scapito di quel che resta di Abu Mazen.
E’ probabile che, al di là dei proclami, i nuovi leader eletti preferiscano che sia Olmert a sbrigare la faccenda, senza doversene occupare successivamente e garantendosi un periodo di calma alla frontiera Sud del Paese.
Infine, si deve considerare che è in atto un profondo processo di riassestamento di tutto il quadro politico e diplomatico regionale, principalmente su impulso del presidente Obama: gli Stati Uniti stanno per nominare un nuovo ambasciatore a Damasco, dopo tanti anni di rottura, ed anche Ahmadinejad, proprio in questi giorni, ha risposto positivamente alla proposta Usa di aprire contatti per stabilire un nuovo e più positivo tipo di relazioni. La stessa tradizionale alleanza israeliana con la Turchia ha subìto un duro colpo con la recente offensiva a Gaza, e comunque Erdogan aspira a svolgere un ruolo più dinamico e a tutto campo nell’area.
La questione è se la nuova leadership israeliana sarà in grado di misurarsi con questo processo da protagonista, o si limiterà a subirlo resistendovi e cercando di minimizzare i danni.
Fonte: www.cipmo.org
12 Febbraio 2009