Israele, caduta libera
Peace Reporter
Per avere la cittadinanza sarà adesso necessario giurare lealtà a Israele “in quanto stato ebraico e democratico”.
”E poi, cosa mai significa stato ebraico?”, si domanda perplesso Gideon Levy. “Uno stato che appartiene agli ebrei della diaspora più che ai suoi cittadini arabi? Saranno loro a decidere il nostro destino, insieme agli ultraortodossi contrari all’esistenza di Israele, e questa sarà ancora chiamata una democrazia? Cosa è ebraico? Lo shabbat? La cucina kosher? L’influenza ogni giorno più forte delle autorità religiose? Non conosco tre ebrei che concordino su cosa sia uno stato ebraico. Eppure la Knesset è in procinto di discutere una ventina di altri disegni di legge simili a questo: un giuramento di lealtà per i deputati, limitazioni alle attività delle organizzazioni non governative, la trasformazione in reato della commemorazione della nakbah, il divieto di promuovere un boicottaggio. L’istituto della revoca della cittadinanza. Fino a quando di Israele non sarà rimasto che uno stato ebraico in un senso che nessuno realmente comprende, ma certo non uno stato democratico. Democrazia non significa governo della maggioranza. Significa tutela delle minoranze”.
Un’iniziativa controversa. La modifica alla legislazione sulla cittadinanza approvata in consiglio dei ministri, e adesso inviata alla Knesset per la sua definitiva adozione, impone agli immigrati di giurare lealtà non più semplicemente allo stato di Israele, ma allo stato di Israele “in quanto stato ebraico e democratico”. Scalpellata dal ministro della Giustizia Ya’akov Ne’eman, la nuova formula è il tributo pagato alla destra di Avigdor Lieberman: “Niente lealtà, niente cittadinanza”, è stato il pilastro della sua campagna elettorale. Ma l’emendamento, che nella proposta originaria includeva anche l’aggettivo “sionista”, ha infiammato critiche trasversali. Benjamin Netanyhau per primo avrebbe preferito un riferimento esplicito a Israele “in quanto stato del popolo ebraico che garantisce piena eguaglianza a tutti i cittadini”: non per arginare la contestazione della minoranza araba, oggi il diciotto per cento della popolazione, che ha bollato l’emendamento come “razzista e fascista: nessuno stato al mondo pretende dai propri cittadini l’adesione a un’ideologia”, ha dichiarato Azmi Bishara – ma piuttosto per arginare la contestazione della stessa destra.
Anche se Eli Yishal, infatti, ministro dell’Interno, si è già detto pronto a privare della cittadinanza chi non dimostrerà adeguata lealtà allo stato, richiamandosi in particolare a Hanin Zoabi, deputata araba a bordo della Freedom Flotilla, “questo emendamento danneggia l’immagine di Israele”, ha obiettato Tzipi Livni, alla guida di Kadima. “Proprio in quanto stato ebraico”, ha aggiunto Dan Meridor, ministro dell’Intelligence del Likud, “abbiamo l’obbligo morale di trattare i non ebrei come noi ebrei avremmo voluto essere trattati”. Analoga la posizione del presidente della Knesset, Reuven Rivlin: “tutte le nostre Leggi Fondamentali definiscono questo stato come uno stato ebraico e democratico. La legittimità della fondazione di uno stato ebraico in terra di Israele è stata riconosciuta con la nostra ammissione alle Nazioni Unite: abbiamo già vinto la nostra battaglia storica. Questo emendamento è solo un’arma per i nostri nemici”.
E divisa, inevitabilmente, anche la sinistra. Ehud Barak, segretario laburista e ministro della Difesa, avrebbe inserito un’ulteriore precisazione: un giuramento a Israele in quanto stato ebraico e democratico, ma “nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza”, a presidio, ha sostenuto, di un’interpretazione liberale della nuova norma. Ma “l’unico effetto di questa legge sarà radicalizzare gli arabi”, gli ha risposto il compagno di partito Avishay Braverman, ministro per le Minoranze: “rimarcare che non appartengono allo stato che chiede la loro lealtà. Ed è terribile, per discendenti di ebrei che hanno pagato con l’Olocausto l’accusa di non essere abbastanza tedeschi, francesi, spagnoli. L’accusa di slealtà nei confronti degli stati di cui erano cittadini”.
Una definizione indefinita. A quanti chiedono il mantenimento di un giuramento più formale, come quello introdotto da Ben Gurion e ancora in vigore nell’esercito – “lealtà allo stato di Israele, alle sue leggi e alle sue autorità” – il politologo Shlomo Avineri ribatte che tutte le democrazie occidentali obbligano gli immigrati a un giuramento di tipo sostanziale: l’adesione cioè ai princìpi di fondo dei loro ordinamenti. In Gran Bretagna, l’impegno è al rispetto dei diritti, delle libertà e dei valori democratici; negli Stati Uniti, al rispetto della costituzione. In realtà, sostiene il giurista Ze’ev Segal, il nuovo emendamento non rivoluziona l’attuale giuramento di lealtà “allo stato di Israele”, perché nella sua Dichiarazione di Indipendenza e nelle sue Leggi Fondamentali Israele è già qualificato, appunto, come “stato ebraico e democratico”.
Tuttavia, spiega, un riferimento esplicito alla Dichiarazione di Indipendenza, come proposto da Ehud Barak, avrebbe il merito di ricordare quello che l’emendamento invece incentiva a dimenticare: e cioè che nella Dichiarazione di Indipendenza la definizione di Israele come stato ebraico e democratico è seguita dall’affermazione del principio di eguaglianza e della piena e effettiva inclusione dei cittadini non ebrei nella vita politica e sociale. Perché il problema, come segnalato da Gideon Levy, è che a differenza della nozione di stato democratico, la nozione di stato ebraico non ha un significato univoco: ed è proprio questa incertezza, insieme alla fragilità del principio di eguaglianza nell’assetto costituzionale di Israele – la Dichiarazione di Indipendenza omette infatti l’eguaglianza essenziale, per la questione palestinese: quella tra le nazionalità – a tradursi nella discriminazione di fatto dei non ebrei.
La ragione per cui è così difficile, per l’osservatore esterno, percepire la vera natura dell’ordinamento giuridico israeliano è che in realtà, formalmente, tutti i cittadini sono in effetti uguali davanti alla legge: non si ha tanto una discriminazione nei confronti dei non ebrei, quanto, più sottile, una discriminazione in favore degli ebrei. Il caso emblematico è il diritto di proprietà. L’espropriazione di terra privata da parte dello stato è consentita per esempio per esigenze di razionalizzazione e produttività dell’agricoltura, o per esigenze di sicurezza: e in generale, secondo la Land Acquisition for Public Purposes Ordinance, “nell’interesse pubblico”: ma l’individuazione di questo interesse pubblico è competenza esclusiva del potere esecutivo, sottratta al controllo del potere giudiziario. E comunque, ha puntualizzato la Corte Suprema, il significato di “interesse pubblico” non potrebbe che essere circoscritto dalle Leggi Fondamentali – nello specifico, la Basic Law: Human Dignity and Liberty, in cui rientra il diritto di proprietà: e che alla sua ottava sezione, autorizza tutte quelle restrizioni stabilite “by a law befitting the values of the State of Israel”.
Il valore dell’ebraicità dello stato, in altre parole, legittima limitazioni dei diritti individuali. L’interpretazione della Corte Suprema non lascia margini di dubbio: “la dottrina dei diritti umani concepisce il singolo non come un’isola, ma come parte di una società con obiettivi nazionali. E Israele è diverso dagli altri paesi: non è solo uno stato democratico, ma anche uno stato ebraico, ed è questa sua caratteristica il principio chiamato a orientare il bilanciamento tra rivendicazioni inconciliabili”.
La minaccia della pace. La nuova formulazione del giuramento di lealtà sarebbe in realtà problematica anche per molti cittadini ebrei: dagli ultraortodossi convinti che la fondazione di Israele sia prerogativa del Messia ai coloni religiosi che contesterebbero invece l’aggettivo “democratico”, in nome della priorità delle norme dell’halakah rispetto alle norme secolari, fino ai moltissimi immigrati, in particolare russi, motivati essenzialmente da ragioni economiche e estranei al sionismo – oltre, naturalmente, all’élite laica di Tel Aviv. “Persino Mordechai Vanunu: è finito in carcere, ma non è stato privato della cittadinanza. Perché la cittadinanza non è una ricompensa o una punizione per la propria lealtà allo stato”, commenta il giurista Yedidia Stern.
“Questo emendamento, è evidente, colpisce in prima battuta i cittadini arabi, la nostra cosiddetta quinta colonna: gli immigrati non ebrei sono in larga parte i loro familiari, palestinesi dei Territori. Ma il timore nei loro confronti è in realtà la proiezione psicologica di una minaccia interna. Rispetto agli arabi, siamo tutti leali. La paura è il nostro minimo comune denominatore: l’unico possibile, in assenza di una visione condivisa della nostra identità di ebrei israeliani”. Sulla stessa linea il giornalista Yacov Ben Efrat.
“Non è solo questione di arabi e ebrei, qui, ma ebrei e ebrei. Siamo una società in frantumi. Le risorse pubbliche sono distribuite in modo profondamente iniquo: alla vecchia frattura tra ashkenaziti e sefarditi, si saldano adesso gli squilibri propri di tutti i paesi su cui si abbatte la globalizzazione. Il dibattito sul carattere ebraico di Israele ha il solo obiettivo di perpetuare una finta solidarietà tra ebrei”. Ma forse anche, soprattutto, aggiunge il filosofo Berel Lang, “l’obiettivo di rendere impossibile ai palestinesi il riconoscimento di Israele”.
L’emendamento approvato domenica è stato infatti letto principalmente come il prezzo per l’assenso di Lieberman a un’ulteriore moratoria dell’espansione degli insediamenti: il prezzo, cioè, per disincagliare i negoziati. In realtà, dopo poche ore Netanyhau è tornato a insistere, come condizione per il loro proseguimento, sul riconoscimento della natura ebraica dello stato di Israele. Una richiesta inedita, nel diritto internazionale – niente di simile è stato preteso, a suo tempo, da Egitto e Giordania. “Si ripete la trappola di Camp David”, osserva Mustafa Barghouthi: “imporci vincoli inaccettabili, per costringerci alla responsabilità del mancato accordo – all’epoca, si disse, era stata offerta ad Arafat persino Gerusalemme capitale: e invece, a studiarsi le mappe, si trattava di Abu Dis: non Gerusalemme, ma la sua discarica”.
Tutto questo sembra però essere sfuggito alla sinistra. “Invece di decostruire l’idea stessa di lealtà, agli antipodi dei valori liberali di quell’Occidente a cui pretendiamo di appartenere, inseguiamo la destra sul suo stesso terreno”, nota con amarezza lo storico Ilan Pappé: “Lieberman mi preoccupa non perché è un estremista, ma al contrario: perché rappresenta l’israeliano medio”. Mentre la manifestazione di protesta indetta a Tel Aviv raccoglieva solo un centinaio di intellettuali, il dibattito si concentrava disciplinato sull’elaborazione di alternative – dalla lealtà “alla legittimità dello stato di Israele” alla lealtà “alla legge”, nessuno ha negato il suo contributo. “Ma il messaggio dominante, adesso, è che i palestinesi non vogliono riconoscere lo stato di Israele: uno stato che abbiamo già riconosciuto vent’anni fa a Oslo”, continua Mustafa Barghouthi. La reazione immediata di Mahmoud Abbas è stata netta: “la questione dell’ebraicità di Israele, della sua natura, non riguarda negoziati internazionali”, ha chiuso.
Davanti alla fermezza del dipartimento di stato statunitense, però, che attendeva una risposta ufficiale alla richiesta israeliana, Yasser Abed Rabbo ha a sorpresa rilanciato: “Siamo pronti a riconoscere Israele in un’ora, comunque voglia definirsi – anche stato cinese, se crede. L’unica cosa che chiediamo è una mappa con i suoi confini precisi, lungo le linee del 1967”. Non è troppo difficile interpretare il rimbalzare delle dichiarazioni: nessuno ha fiducia in questi negoziati – avviati d’altra parte per esigenze di politica interna di Barack Obama, in un momento invece in cui sia i palestinesi che gli israeliani sono particolarmente frammentati e nessuno, da entrambi i lati del Muro, ha l’autorevolezza e forza per garantire il rispetto di una eventuale intesa: l’unico obiettivo, per tutti, è non apparire responsabili del fallimento.
Intanto, oltre il Muro. Mentre in Israele si discuteva di giuramenti di lealtà, l’Autorità Palestinese approvava i nuovi manuali di storia per le scuole superiori, che affiancano adesso alla ricostruzione della nakbah anche la versione sionista del 1948 – come guerra cioè di difesa e indipendenza. Opera a più mani di intellettuali israeliani e palestinesi insieme, i nuovi libri sono stati invece vietati dal ministero dell’istruzione di Tel Aviv – perché affiancano alla ricostruzione della Guerra di Indipendenza anche la versione araba del 1948. Forse è Mahmoud Abbas ad avere titolo per imporre, come condizione per il proseguimento dei negoziati, il riconoscimento della Palestina.
Fonte: PeaceReporter
di Francesca Borri
14 ottobre 2010