Iran, un anno dopo solo una candela per Neda


Gabriel Bertinetto


I leader dell’opposizione non chiamano la piazza. Neda fu una delle centinaia di vittime provocate da quella repressione violenta.


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Iran, un anno dopo solo una candela per Neda

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non era buio e non faceva freddo alle 18,10, ieri in Iran, ma esattamente a quell’ora e quel minuto in molte case si è accesa una candela. Una fiammella per riscaldare i cuori e illuminare il futuro di chi nella Repubblica di Ahmadinejad e Khamenei non rinuncia a sperare. Una fiammella per ricordare la scomparsa di Neda Agha-Soltan, «martire per la libertà». Neda fu uccisa il 20 giugno del 2009. Alle 18,10 il proiettile sparato da uno sgherro del regime la colpì in pieno volto. Le immagini dell’assassinio fecero il giro del mondo, e la giovane studentessa diciannovenne divenne il simbolo della protesta democratica nel Paese in cui, otto giorni prima, la scelta dei cittadini era stata clamorosamente negata e capovolta. Il potere aveva stabilito che dalle elezioni uscisse riconfermato il capo di Stato uscente, Ahmadinejad. E così fu, con brogli massicci. La collera popolare esplose in massicce dimostrazioni nelle strade di Teheran e altre città. La risposta del regime fu brutale.

Neda fu una delle centinaia di vittime provocate da quella repressione violenta. È stata la mamma della ragazza a lanciare l’appello per una commemorazione raccolta e silenziosa del tragico anniversario. Dieci giorni fa nell’imminenza della data in cui nel 2009 si tennero le presidenziali, un analogo invito ad evitare manifestazioni di piazza era stato rivolto dai capi dell’opposizione, Mirhossein Moussavi e Mehdi Karroubi, sicuri che il governo non avrebbe esitato ad attaccare con estrema durezza i dimostranti senza curarsi che fossero «innocenti ed indifesi». Questa è la realtà del movimento per la libertà oggi in Iran. Intimorito e ridotto all’immobilità. Le ragioni della protesta e della rivolta non sono venute meno. Ma la ferocia della repressione ha almeno per ora ottenuto il risultato voluto. La gente sta a casa. I leader riformatori stessi esortano i seguaci a non esporsi pubblicamente. Se sia una resa o una ritirata strategica per mantenere intatte le forze in vista di un’offensiva futura, è presto per dirlo. Ma l’apparenza è quella di una società domata.

Human Rights Watch (Hrw) avverte che «mentre la comunità internazionale si è concentrata sulle ambizioni nucleari dell’Iran, Teheran ha metodicamente soffocato ogni forma di dissenso nel Paese». Joe Stork, vice direttore della sezione mediorientale di Hrw, nota che «giornalisti, avvocati, attivisti della società civile, che erano soliti parlare con i media stranieri e le organizzazioni per la tutela dei diritti umani, sono sempre più riluttanti a farlo ora, temendo i controlli sulle conversazioni telefoniche e su Internet». Incurante delle denunce e delle condanne, la macchina repressiva della Repubblica islamica lavora a pieno ritmo. Nel 2009 le persone salite sulla forca sono state 388. Più di una al giorno. Nella prima metà dell’anno in corso già se ne contano almeno 80. L’ultima ieri nel carcere di Evin ha avuto per vittima Abdolmalek Righi, capo del gruppo armato dei beluci di fede sunnita, Jundullah. Era imputato di omicidi, sequestri, attentati dinamitardi e altro ancora. Reati gravissimi. Ma gli è stato negato un processo equo. Udienze a porte chiuse, notizia dell’impiccagione diffusa solo a misfatto avvenuto.


Fonte: l'Unità

21 giugno 2010

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