“Io non ridevo alle 3 e 32”
Stefano Corradino
Ad un anno dal terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo è stato affisso uno striscione che recita: “Io non ridevo alle 3:32”, frase che meglio di altre sintetizza lo stato d’animo degli abitanti.
Intorno alle sei del sabato pomeriggio le signore si fermano davanti alle vetrine con un piede dentro e uno fuori. Vorrebbero sfilare al manichino l'ultimo vestito alla moda ma si domandano se sia opportuno in tempi di crisi. Gli uomini, in gruppi di tre o di quattro, davanti al bar tabacchi sciorinano pronostici sulle partite del giorno dopo o sull'anticipo serale con la speranza di quel 13 al totocalcio, che è perfino meglio del jackpot del superenalotto: indovinare sei numeri è una gran botta di fortuna ma se azzecchi tredici risultati dai campi puoi vivere di rendita per anni con la fama di guru sportivo del quartiere. I giovani si radunano nella piazza principale per decidere il programma della serata, la pizzeria dove andare a mangiare e il dopo cena. Il cinema o il discopub? E perché no, entrambi? Riuscirò poi a defilarmi dal gruppo e rimanere da solo con la ragazza che mi piace? E avrò coraggio e prontezza di darle un bacio prima che gli altri si accorgano dell'assenza e qualcuno ci venga a cercare?
E' quello che succede ogni fine settimana nelle grandi e piccole città d'Italia, in un via vai animato di voci, di passi e di negozi illuminati. Succede ovunque tranne all'Aquila, città capoluogo sconvolta da un terremoto che, un anno fa ha ucciso 308 persone, ne ha ferite 1600 e ne ha costrette oltre 65mila ad abbandonare le proprie case per rifugiarsi nelle tende, negli alberghi, sulla costa. Il dramma umano dei familiari delle vittime strappati dai loro cari e dalle mura in cui sono cresciuti. Non un luogo qualunque ma una città unica. Le strade medievali e le case con gli orti murati, le facciate con motivi decorativi del settecento, i primi saggi del barocco ancora con influenze manieristiche. ..
Camminare oggi per le strade dell’Aquila è triste ed angosciante. La città è deserta, le vie spettrali. C’è solo la luna a rischiarare le vie buie del centro. Il 6 marzo scorso erano tanti gli striscioni portati in marcia. Una marcia silenziosa con le fiaccole in mano riscaldava le mani gelide in una giornata di fine inverno. “Io non ridevo alle 3:32” recita lo striscione che meglio di altri sintetizza lo stato d’animo degli abitanti, indignati dalle frasi intercettate di quegli imprenditori sciacalli che si divertivano ad immaginare quali facili guadagni ricavare da un’immane tragedia. Le madri marciano lungo la strada con le foto dei figli morti appese al collo. Lo sguardo è fisso nel vuoto, impenetrabile. Si scioglie in un pianto sofferto ma misurato solo davanti a quello che resta della Casa dello studente. Quando raggiunge il piazzale Collemaggio la coda del corteo è ancora lontana. Oltre quattromila persone circondano il palco dal quale interverranno i familiari delle persone scomparse. Dell’Aquila ma non solo. Le vittime dell’illegalità. Da Giampilieri , a Favara, a Viareggio. Nelle fabbriche, a partire dalla ThyssenKrupp dove gli operai sono morti sul lavoro. Altro che morti bianche, sono morti sporche, delitti commessi da una società che subordina la dignità del lavoro e dell'uomo alla logica profitto a tutti i costi. “La memoria è quanto di più rivoluzionario possa esistere” recita la scritta illuminata dal proiettore dietro il palco. “Senza memoria non c'è passato. Non c'è presente. Non c'è futuro né giustizia”. Sul palco Antonietta Centofanti, zia di Davide, una delle otto vittime della Casa dello Studente. Quello di Antonietta è un grido di dolore non rassegnato. “Un grimaldello, per cercare di capire cosa è accaduto e cercare di avere giustizia”. “Perché siamo convinti che ciò che è accaduto si poteva evitare, che ciò che è accaduto va imputato alla mancanza di responsabilità, alla cattiva costruzione, ad una cultura che è ormai dilagante nel nostro Paese e che riguarda una cattiva gestione dei territori, dei posti di lavori, della Cosa Pubblica. L'Italia è un Paese che scava per recuperare i cadaveri dei suoi ragazzi, che potrebbe segnare le sue tragedie nel calendario, le conosce prima, le lascia accadere, le aspetta: terremoti, alluvioni, frane, crolli, morti sul lavoro… sono scene che si ripetono e nessuno ne conserva memoria!”.
Adesso salgono sul palco alcune ragazze. Leggono tutti i nomi delle 308 vittime del terremoto: Alena Airulai, Carmine Alessandri, Silvana Alloggia… Lo fanno il 6 di ogni mese ma quest’anno la rievocazione ha un valore particolare e l’applauso liberatorio che accompagna la lettura dell’ultimo nome lo testimonia.
Proseguono gli interventi. “Quando subisci un dramma così resti solo”, spiega un padre che ha perso la figlia di 6 anni nel crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia il 31 ottobre del 2002. “Nessuno ti dà una mano per cercare di dare delle risposte a tua figlia, per cercare di avere una briciola di verità e giustizia… Devi lottare contro gli interessi, da solo. E la cosa più triste è quando si spengono i riflettori, resti da solo, tu, il tuo dramma, la tua famiglia che non riesce più a vivere…”
La serata si conclude. I giornalisti delle tv (pochi purtroppo) se ne vanno. Alcuni gruppi di giovani intorno alle fiaccole. Gettate in terra ancora accese per riscaldare mani e piedi gelati. Per molti, quella sprigionata dalle torce infiammate è una luce di speranza. Speranza di verità e giustizia.
Fonte: Articolo21 e la rivista Confronti
5 aprile 2010