Il sorriso di Falcone. Per non dimenticare


Alberto Conci - unimondo.org


Oggi, 23 maggio, si ricorda il ventesimo anniversario della strage di Capaci, l’attentato mafioso in cui perse la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta.


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Il sorriso di Falcone. Per non dimenticare

Sono passati vent’anni da quando sull’autostrada Trapani–Palermo nei pressi di Capaci un’impressionante esplosione causata da cinque quintali di tritolo disintegrava le automobili su cui viaggiavano Giovanni Falcone e la sua scorta. Erano le 17.58 del 23 maggio 1992. Morirono sul colpo la moglie del magistrato, Francesca Morvillo, e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Falcone, giunto all’ospedale ancora in vita, spirò poco dopo fra le braccia dell’amico Paolo Borsellino. Meno di due mesi dopo, nel tardo pomeriggio del 19 luglio, un’autobomba con oltre un quintale di tritolo uccideva a Palermo, in via d’Amelio, Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. A queste morti ne va aggiunta una spesso ingiustamente dimenticata. Il 26 luglio moriva gettandosi dal settimo piano di un palazzo di Roma, dove si trovava grazie a un programma di protezione, Rita Atria, una ragazza di soli diciassette anni. Rita apparteneva a una famiglia mafiosa e dopo la morte del padre e del fratello, uccisi nella guerra fra cosche rivali, si era confidata con Paolo Borsellino, consegnandogli i diari tenuti fin da ragazzina e divenendo così un’importantissima testimone nella lotta alla mafia. Il senso di solitudine e di disperazione per la morte di Borsellino, che era diventato per lei come un padre, la condusse a quel gesto disperato. Ai suoi funerali non parteciparono gli abitanti del paese, nemmeno la madre che la considerò infame per aver raccontato e denunciato le oscure trame della mafia locale.

È doveroso, quando si comincia a raccontare la storia di Falcone e Borsellino, ricordare il sacrificio di Francesca, Antonio, Vito, Rocco, Agostino, Emanuela, Vincenzo, Walter, Claudio e Rita per onorare la memoria del loro impegno per la giustizia e per la difesa delle istituzioni democratiche dall’attacco, quello sì infame, della criminalità organizzata.

La vicenda di Falcone e Borsellino resta uno dei passaggi cruciali nella storia del nostro Paese. Non solo per comprendere il difficile cammino della lotta alla mafia, ma anche perché la loro vicenda apre scenari inquietanti sul rapporto fra criminalità organizzata, massoneria, settori deviati delle istituzioni, cattiva politica. Il loro impegno comune e la loro tragica fine ne hanno fatto un simbolo che va ben oltre la loro storia: nella memoria del loro sacrificio è in qualche modo contenuta la vicenda di tutti gli uomini giusti che hanno speso la propria vita per la difesa della legalità e della democrazia e per la costruzione di una cultura della convivenza che non lasci spazio alla logica della violenza e dell’illegalità.

Giovanni Falcone era nato a Palermo il 18 maggio 1939. Dopo una breve permanenza nell’Accademia Navale si laureò in giurisprudenza a 22 anni ed entrò in magistratura nel 1964, diventando nel 1966 sostituto procuratore a Trapani, dove rimase per circa dodici anni.

Paolo Borsellino era di qualche mese più giovane. Nato il 19 gennaio 1940, dopo il liceo classico si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza a Palermo. Laureatosi nel 1962, divenne nel 1965 uditore giudiziario al Tribunale civile di Enna, l’anno successivo pretore a Marzara del Vallo e nel 1975 giunse a Palermo all’Ufficio Istruzione guidato da Rocco Chinnici, dove si occupò inizialmente di processi civili.

Falcone arrivò al tribunale di Palermo tre anni dopo, alla fine del 1978, e venne assegnato allo stesso ufficio. I due amici di infanzia, ricorderà Borsellino nella sua ultima lettera, si ritroveranno così nuovamente assieme nell’ufficio di Chinnici, che viene a ragione considerato il padre del pool antimafia e del maxi processo, e che verrà ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983. Fu lui che inaugurò una strategia investigativa inedita sulla mafia, indagandone i traffici internazionali, i movimenti finanziari e patrimoniali, i legami con la politica e la massoneria, e spingendo Falcone e Borsellino a muoversi in quella direzione per comprendere i cambiamenti qualitativi e i disegni criminali di un sistema mafioso che stava rapidamente cambiando. A Chinnici subentrò Antonino Caponnetto, che portò a termine le intuizioni del predecessore dando vita concretamente al pool antimafia del quale facevano parte, oltre a Falcone e Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

Nel 1984 l’estradizione dal Brasile di Tommaso Buscetta fu determinante per avere, come disse Falcone che ne raccolse le confessioni, la “visione globale del fenomeno mafioso”. L’attacco alla mafia che ne seguì non fu senza conseguenze: nella cosiddetta “maledetta estate” del 1985 vennero uccisi i commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, strettissimi collaboratori di Falcone e Borsellino. In un clima di tensione altissimo i due magistrati vennero trasferiti con le famiglie all’Asinara, dove continuarono a lavorare per l’istruzione del più complesso processo alla mafia della nostra storia. Il 10 febbraio dell’anno successivo prendeva avvio, nell’aula bunker appositamente costruita, il maxiprocesso nel quale Giuseppe Ayala sosteneva l’accusa. Delle 475 persone rinviate a giudizio, il 16 dicembre 1987 ne verranno condannate ben 360.

Seguiranno anni difficilissimi per il pool, nei quali alle intimidazioni si mescoleranno continui tentativi di screditarne il lavoro, mentre si facevano sempre più frequenti le minacce per la vita di Falcone e Borsellino. Nel 1986 Borsellino verrà trasferito a Marsala, per tornare al tribunale di Palermo nel dicembre 1991. Intanto, nel marzo 1991 Falcone veniva chiamato a Roma a dirigere l’Ufficio Affari Penali, dove, ricorderà Ilda Bocassini, “Giovanni aveva scelto l'unica strada per continuare ad aiutare i colleghi, andando al ministero per fare sì che si realizzasse quel progetto rivoluzionario di una struttura unica per combattere la mafia”. Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermava l’impianto del maxiprocesso, riconoscendo così la validità del cosiddetto “teorema Buscetta”: saranno comminati 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Ma il 12 marzo 1992 l’uccisione di Salvo Lima, potente politico democristiano di Palermo, fu il segnale di una nuova stagione di violenza che avrebbe ridefinito gli equilibri fra le cosche e i rapporti fra mafia e politica: anche a questo cambiamento va ricondotta la morte dei due magistrati.

In maggio la strage di Capaci fu per Borsellino un colpo durissimo. Scriverà: “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato…”.

Per Borsellino, al quale il pentito Vincenzo Calcara aveva confidato di aver ricevuto da Cosa nostra l’ordine di ucciderlo, i mesi successivi divennero una lotta contro il tempo: sapeva di essere in pericolo e si confidò con il “padre” del pool, Antonino Caponnetto, che lo mise in guardia raccomandandogli mille attenzioni per non dare alla mafia la possibilità di colpirlo. In quelle settimane, Borsellino stava raccogliendo le confessioni di un altro pentito fondamentale nella lotta alla mafia, Leonardo Messina. Giuseppe Ayala ricorda così gli ultimi giorni di Borsellino: “Ai primi di luglio mi telefonò da Firenze Nino Caponnetto, pregandomi di andare a trovare Borsellino, che aveva sentito e gli era sembrato molto giù di corda. Volai a Palermo appena possibile e lo raggiunsi in ufficio. Parlammo a lungo. A un certo punto mi disse una frase che feci finta di non capire: «Giuseppe, non posso lavorare meno. Mi resta poco tempo»”. Pochi giorni dopo Ayala sarà uno dei primi ad accorrere sul luogo della strage: “… tornato dal mare, stavo riposando. Intorno alle sei del pomeriggio sentii un boato che mi fece saltare dal letto. Mi affacciai, ma non notai nulla di particolare. Dopo qualche minuto vidi un’enorme nube nera superare i dieci piani del palazzo di fronte a casa mia. Scesi in strada. La scorta mi seguì. Dopo duecento metri i nostri occhi furono costretti a una visione che a qualunque essere umano andrebbe risparmiata. E che non descrivo. Inciampai in un tronco di uomo bruciato. Era quello che restava di Paolo Borsellino. Fui il primo a vederlo in quello stato. Sarò l’ultimo a dimenticarlo”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano due uomini buoni che amavano la vita. Ricorda Francesco La Licata: “Giovanni amava anche i piccoli piaceri di ogni giorno, gli piaceva stare a tavola, parlare con gli amici, sentire buona musica, leggere libri, andare a spasso con Francesca, comprarsi una cravatta senza dover bloccare il traffico…”. E di Paolo Antonio Ingroia racconta che “era un uomo allegro. Dotato di una risata che gli illuminava il viso. E quando rideva, la sua allegria, che era allegria e freschezza l’animo, voglia di vivere, lo prendeva tutto, fino a scuoterlo nel profondo. I suoi baffi ridevano, il suo naso rideva, i suoi occhi ridevano, felici. La sua anima sorrideva”.

Si ricorda spesso una frase che ebbe a pronunciare Giovanni Falcone: “A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Mi chiedo spesso, con un peso sul cuore: sulle gambe di chi, oggi, camminano con la stessa integrità morale, quelle idee?

Fonte: www.unimondo.org
23 maggio 2012

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