Il re dell’acqua: “Così disseto due milioni di esseri umani”


Lucia Bellaspiga


Silvano Pedrollo, leader mondiale nella costruzione di pompe idrauliche, inizia irrigando il deserto degli emiri. Oggi regala scuole, case, chiese e pozzi.


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Il re dell’acqua: “Così disseto due milioni di esseri umani”

Facile come bere un bicchier d’acqua. Cioè difficile, se non impossibile: oggi in molti luoghi della terra l’acqua, specie se potabile, non popolata da vermi e parassiti mortali, un sogno irrealizzabile, un bene per cui scoppiano sanguinosi conflitti. Qualcuno lo aveva già previsto in tempi non sospetti: Erano gli anni ’70. Mio padre aveva un’officinetta di riparazioni, io avevo un diploma in elettrotecnica e cercavo un futuro. Per caso lessi un articolo che diceva qualcosa di incredibile: che entro qualche decennio la vera ricchezza per l’umanità sarebbe stata l’acqua, che per averla si sarebbero combattute guerre… E che già allora a Dubai era picara del petrolio. Partii subito e andai a vedere se era vero…
Inizia così l’avventura di Silvano Pedrollo, presidente dell’omonima azienda veronese, leader mondiale nella costruzione di pompe idrauliche, capaci di cavare l’acqua anche da un deserto, e non per modo di dire . Oggi ha 500 dipendenti diretti, fa 108 milioni di euro di fatturato, esporta in 160 Paesi e ogni anno produce 2 milioni di pompe idrauliche. Trent’anni fa decise che risolvere il problema idrico sarebbe stato il suo futuro, ma le banche non finanziavano uno che farneticava di acqua più preziosa dell’oro e simili follie. A Dubai allora non c’era niente – racconta Pedrollo -, nessuno immaginava che in quella landa desertica un giorno sarebbero spuntati gli hotel avveniristici di oggi, si dormiva sulle navi. Parlai agli emiri arabi della possibilità di far sgorgare l’acqua e diventarono matti: mi coprirono di lettere di credito e con quelle in mano stavolta le banche mi anticiparono tutti i soldi che volevo. Dopo Dubai vennero India, Africa, America Latina… Il bisogno aguzza l’ingegno e in Bangladesh, dove a tirar su l’acqua a mano per dieci ore al giorno sotto il sole erano le donne, un uomo gli fece una promessa: tu inventami una pompa che consumi pochissimo e qui ne venderemo migliaia. Era il 1985, ne costruii una che costava come un paio di pizze e pompava mille litri al minuto – ricorda -, gli mandai le prime cento, sufficienti per un’intera provincia… Dopo sei mesi lo raggiungo in Bangladesh e all’aeroporto di Dhaka mi trovo sessanta giornalisti: anziché due raccolti di riso ne avevano fatti tre. I suoi impianti furono considerati un bene primario dal governo, che tolse le tasse doganali.
Un lavoro – quello di donare l’acqua – che metaforicamente collima col dare da bere agli assetati, e Pedrollo, che di metaforico ha poco, lo fa coincidere con uno stile di vita: Il mio è un settore che ti porta a incontrare autentici drammi collettivi e allora ti rendi conto che la solidarietà non è una virtù innata ma un impegno cristiano da coltivare giorno per giorno, senza darti pretesti per girare la testa da un’altra parte. Il ricordo torna ancora in Bangladesh, una regione meno estesa dell’Italia ma popolata il doppio, dove la vita media non supera i 30 anni: Quello che vedevo dalla mia auto mi faceva stare male, un vecchio cieco grattava al vetro per chiedere una moneta. Nader, il mio agente locale, un islamico di grande umanità, mi disse di non aprire il finestrino altrimenti ci avrebbe assalito una folla di questuanti… Poco dopo pereravamo a pranzo con gli inglesi, un banchetto con ogni ben di Dio. Non si può accettare! Dissi a Nader la mia decisione: con gli utili delle elettropompe avrei fatto qualcosa per i bangladesi. Il mio amico fu d’accordo. Nacque così una scuola per sole donne (e qui Nader era meno d’accordo…): inizio lavori nel 1992, inaugurazione nel 1996, con le dodici classi previste dal sistema scolastico bangladese e mille alunne, una scelta determinata dalla convinzione che, in un Paese in cui la donna non ha accesso all’istruzione, solo attraverso la diffusione di una buona cultura di base avrei potuto ridare loro speranza nel futuro, spiega Pedrollo, che dopo aver tirato su i muri dal 1996 paga anche gli stipendi agli insegnanti.
Difficile convincerlo a raccontare (un peccato d’orgoglio), alla fine si cava d’impaccio sfogliando una brossure , 150 pagine di progetti solidali in ogni parte del mondo, dalla A di Albania alla Z di Zimbabwe. Un libro tecnico, ad uso interno, non finalizzato alla divulgazione e perciò esplicito: Sono fiducioso che questi interventi contribuiscano a ridare speranza a tanti nostri fratelli, scrive in prima pagina Pedrollo. E delinea le tre urgenze sulle quali intende agire: Bisogni materiali, spirituali e culturali, ovvero costruire strutture per l’accoglienza dei poveri, per la celebrazione dei sacri riti e per la formazione dei giovani. Insomma: case, chiese e scuole. Oltre, naturalmente, a pompe e pozzi per l’acqua.
Solo qualche esempio tra i tanti. A Lezhe (Albania) in un anno è sorta la cattedrale («Tre mesi fa l’inaugurazione. C’erano i vescovi del Kossovo e della Macedonia, e migliaia di persone, anche islamici. Ho fatto venire da Roma settanta coristi della Cappella Sistina: la bellezza è importante quando si dona qualcosa ai poveri, e costruire edifici belli non costa di più»). Nel frattempo in Brasile, a Quixadà, nasceva l’università Cattolica Do Sertao voluta dal vescovo emerito Adelio Tomasin («Diceva Paolo VI che l’analfabetizzazione è uno spirito sottoalimentato, e purtroppo la fame di istruzione è ancora uno dei problemi che causano carestia, malattie, mortalità infantile, sfruttamento e umiliazione»). In Angola, invece, le suore Canossiane grazie ai suoi fondi hanno aperto due scuole di Informatica e di Economia domestica per ragazze, e in Uganda 1.500 studenti dal 2007 hanno a disposizione una grande scuola in stile college inglese, con laboratorio di chimica e biologia («il dormitorio per 450 maschi e 400 femmine permette ai più poveri di alloggiare presso l’istituto»). In India per i camilliani Pedrollo ha costruito elementari e medie che ospitano 1.500 bambini in 4.000 metri quadri di collegio («Stiamo ultimando la mensa di mille metri quadri, completa di tavoli, sedie, piani di cottura, frigoriferi, congelatori, e i dormitori per 800 studenti e studentesse»)… Sfoglia e racconta. Pagine e pagine dettagliate, con i termini di inizio e fine lavori (rispettati ad orologeria) e tante fotografie che rendono credibile l’incredibile: edifici eleganti sorti in plaghe di povertà, folle che festeggiano, scolaresche con grembiuli, libri e un pasto assicurato, e poi decine di fiotti d’acqua pulita che sgorgano in Africa, Asia, America dove prima c’erano siccità e ventri gonfi di malattie parassitarie. «Io mi impegno sempre e solo con i missionari (comboniani, camilliani, salesiani, della Consolata, suore canossiane…) – dice l’imprenditore – perché con loro so che fino all’ultimo soldino tutto va ai poveri». Pedrollo sovvenziona i lavori e fornisce le elettropompe, oltre ai generatori di corrente per farle funzionare, «ma per i missionari più poveri, che non hanno nemmeno il gasolio per i generatori, produco piccole pompe a pannelli solari…». Da dove vengono tanti fondi? «Ci pensa la Provvidenza », che certamente si serve di lui, ma questo non gli pare un grande merito: «Lo considero un investimento… Se io da solo ho portato finora l’acqua a due milioni di persone, quanto potrebbero fare i nostri governi? Ma invece di costruire pozzi mandano vagoni di antibiotici per i bambini che diventano ciechi lavandosi con l’acqua sporca»
Centinaia di foto inviate dai missionari di tutto il mondo immortalano ovunque lo stesso momento: l’acqua che sgorga per la prima volta e la popolazione incredula che ci sguazza dentro, giarmata di taniche. Da quel giorno pian piano il paesaggio cambia, il deserto diventa campo coltivato, le malattie portate dall’acqua inquinata scompaiono.
Tra tutti colpisce padre Angelo Regazzo, missionario salesiano in Eritrea, una delle regioni pipiagate da guerra e carestia. Ha mandato decine di foto: l’arrivo della pompa al villaggio, la trivellazione del pozzo, il liquido che zampilla dalla condotta, le mani alzate al cielo a gridare al miracolo, la folla attorno alle fontanelle, l’acqua bevuta a sazietà.
E ci riguarda molto da vicino le lettera di un altro missionario:Quando veniva qualcuno dall’Italia – scrive a Pedrollo – ci faceva atterrire con i rubinetti spalancati a festa, come sisoliti fare in una cultura dello spreco. Noi, custodi gelosi di quel tesoro in questa terra d’Africa, abbiamo imparato a usare l’acqua con parsimonia, come se fosse olio, col suo scendere e versarsi sottile e calmo, quasi come un condimento prezioso di cui non abbondare…”

di Lucia Bellaspiga inviata a San Bonifacio (Verona)

Fonte: Avvenire

21 marzo 2008

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