Il giorno che sconvolge l’Anp
La redazione
Pubblichiamo un estratto del libro di Paola Caridi, appena pubblicato. "Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese" (Feltrinelli). Dal capitolo 6. Il doppiopetto di Abul Abed.
Il gran giorno delle elezioni con Hamas arriva senza il convitato di pietra che tanto, nei cinque anni precedenti, aveva inciso sulle vicende palestinesi. Colpito da ictus, Ariel Sharon lascia la scena politica israeliana a metà dicembre, per poi scomparire definitivamente all’inizio di gennaio del 2006, quando entra nell’oblio di un coma irreversibile che lo avrebbe relegato in una clinica per lungodegenti nell’area di Beersheva. I palestinesi si recano a votare mentre Israele è nel pieno della transizione del dopo-Sharon, guidato da uno dei suoi consiglieri più stretti, Ehud Olmert, che non solo deve succedergli come premier, ma anche gestire i primi vagiti del partito voluto dal generale Arik, il Kadima. La debolezza israeliana, nei giorni del voto palestinese, sembra rendere meno duro il peso della presenza israeliana nelle operazioni di voto. Ma è un’illusione che sarebbe durata lo spazio di un mattino. Il mattino assolato, invernale in cui, in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est, i palestinesi festeggiano la democrazia.
È un testa a testa, per tutta la giornata, fino all’ultimo elettore che nel tardo pomeriggio varca la soglia degli oltre mille seggi allestiti. Altissima la partecipazione alle urne, costante sin dalle prime ore della mattina: quasi un milione di palestinesi partecipano alle elezioni del 25 gennaio, il 77 per cento degli aventi diritto. Undici liste si contendono i sessantasei seggi della quota proporzionale, mentre un lungo elenco di quattrocentoquattordici candidati combatte per conquistare gli altri sessantasei seggi del maggioritario. Le lunghe file composte di fronte ai seggi tra Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Il senso del dovere che sprizza dagli occhi degli scrutatori, compunti nel loro lavoro. La gioia contenuta di chi ha votato e può mostrare, con orgoglio appena celato, quel dito sporco d’inchiostro indelebile, il segno che nell’urna c’era anche la propria, di scheda. La pazienza di decine di migliaia di persone che affrontano i check-point israeliani che punteggiano la Cisgiordania, per riuscire a raggiungere i seggi, aiutati talvolta dagli osservatori internazionali che a centinaia sono arrivati a testimoniare la correttezza delle consultazioni. Il 25 gennaio del 2006, per i palestinesi, è nella sequenza di questi fermo-immagine: una giornata di cui tutti descrivono l’incredibile dimensione corale. Nel ricordo di chi ha votato, le seconde elezioni politiche nella breve storia dell’Anp sono ancora considerate un evento importante: uno dei pochi in cui, senza distinzioni, ognuno si è sentito anche cittadino, arbitro del proprio futuro, a prescindere, e oltre il conflitto. Nonostante la presenza, tra le undici liste in competizione, della sigla Riforma e cambiamento scelta da Hamas per concorrere alle elezioni, nessuno aveva bloccato lo svolgimento del voto. Né l’Europa, né gli Stati Uniti, né tantomeno Israele, che dopo aver cercato di impedire o almeno di far rinviare le consultazioni, non aveva poi vietato de facto lo svolgimento delle operazioni di voto in Cisgiordania, un territorio che – con la Seconda Intifada – aveva di nuovo occupato in toto, anche dal punto di vista militare.
Hamas era stata accettata dalla comunità internazionale, sia dagli occidentali sia dal mondo arabo più vicino agli Stati Uniti. Il Quartetto stesso aveva dato il suo benestare, nella riunione a latere dell’Assemblea generale al Palazzo di vetro, pochi mesi prima delle elezioni: l’inviato speciale in Medio Oriente per l’Onu, Alvaro De Soto, ricorda che era d’accordo il segretario generale dell’Onu, nonché gli altri colleghi di De Soto, l’assistente segretario di Stato americano, David Welch, Marc Otte per l’Unione europea, e il russo Alexander Kalugin. Alvaro De Soto ricorda anche come “fosse stata approvata la strategia della cooptazione di Abu Mazen”, inserendo in una parte del documento finale del Quartetto, una parte che non fu letta in pubblico, l’indicazione che tutti dovessero cooperare con quello che i palestinesi avevano deciso, nonostante rimanesse la contraddizione fondamentale tra la partecipazione alle elezioni e il possesso di milizie. Le fredde statistiche dicono, poi, che furono ottocentotrentadue gli osservatori internazionali presenti alle elezioni del 25 gennaio nei Territori palestinesi occupati, di cui centottantaquattro dell’Unione europea e centocinquanta degli Stati Uniti, assieme a un ex presidente che fece firmare la pace tra Israele ed Egitto (Jimmy Carter), un ex premier che si occupò di Bosnia (Carl Bildt), ex ambasciatori, parlamentari italiani e via elencando. Tutti e ottocentotrentadue dissero che le elezioni palestinesi del 25 gennaio 2006 furono tanto democratiche da poter essere portate a esempio. Nessuno, allora, aveva comunicato ai palestinesi che, nel segreto delle urne, il loro diritto/dovere sarebbe stato “a sovranità limitata”. Anzi, soprattutto da parte europea la presenza di Hamas era stata considerata un passo fondamentale verso la cooptazione del movimento islamista nelle istituzioni democratiche, con l’obiettivo – anche dichiarato – di assistere a una progressiva moderazione delle posizioni radicali di Hamas. Su queste considerazioni di base, il 25 gennaio del 2006, i palestinesi hanno pensato di essere totalmente liberi di scegliere in scienza e coscienza, e di potere mettere una croce sulla scheda in piena e assoluta autonomia, come si fa in democrazia. Si sono sentiti, insomma, totalmente arbitri del proprio destino, senza nessun diktat imposto dalla comunità internazionale, in quelle che sono state considerate, dagli osservatori internazionali, le elezioni più libere, democratiche e corrette che si siano mai svolte nella storia recente del Medio Oriente e del mondo arabo. E i palestinesi votarono in maggioranza, quel giorno, Hamas. Smentendo tutti.
Smentendo anche gli esperti, i sondaggisti, i giornalisti, gli osservatori, che sino all’ultimo non hanno voluto credere al risultato delle urne. Quasi tutti i quotidiani – il giorno dopo le consultazioni – sbagliano i titoli della cronaca, dando la vittoria al partito di Abu Mazen, mentre i commentatori discettano della profonda maturità degli elettori palestinesi che hanno scelto Fatah. I politici occidentali si sentono rincuorati, le diplomazie altrettanto, fino a che dallo spoglio delle schede non emerge un altro quadro, ben diverso da quello immaginato. Il risultato ufficiale, emesso dal Comitato elettorale centrale e approvato dalle centinaia di osservatori internazionali arrivati da tutto il mondo, dice che a Hamas sono andati settantaquattro seggi, mentre solo quarantacinque deputati siederanno in Parlamento per Fatah. Le liste minori si dividono i tredici seggi rimasti. Al suo primo ingresso alle elezioni legislative, Hamas ottiene un successo incredibile, conquistando il 56 per cento del Parlamento. Per Fatah, comincia il duro periodo delle recriminazioni. Per Hamas, l’altrettanto difficile fase in cui un movimento che si è sempre definito di resistenza e di opposizione diventa un partito di governo.
Lo tsunami elettorale di Hamas, a dire il vero, sorprende gli stessi dirigenti e attivisti islamisti. Nei giorni precedenti le consultazioni, invero, i militanti e i dirigenti del movimento islamista si erano dimostrati molto sicuri di sé. Sicuri di poter ottenere un buon risultato. E anche le cifre, le percentuali che venivano date ai giornalisti si sarebbero avvicinate al risultato finale: una vittoria netta, importante. A guardare bene, però, quella vittoria è stata un risultato inatteso anche per Hamas. Nessuno dei dirigenti lo ha mai ammesso pubblicamente, confessando invece, in privato, che i primi a essere rimasti sorpresi dalla vittoria nelle urne erano stati proprio loro. Ghazi Hamad, una delle figure più rappresentative dell’ala pragmatica e riformista della Striscia di Gaza, lo ha implicitamente confermato nella lettera che ha scritto per motivare le sue dimissioni da portavoce dell’esecutivo di unità nazionale, dopo il colpo di mano del giugno 2007. Nel periodo al governo e nei suoi passi in politica, scrive Hamad, “Hamas è stata estremamente confusa e ha vissuto molte sorprese per l’assenza di pianificazione e perché non era pronta per i cambiamenti rapidi che stavano avvenendo”. Rapidi cambiamenti, dice ancora Hamad, ai quali il movimento islamista ha risposto con “tradizionalismo e letargo”, perché “Hamas non ha cambiato le sue idee, il suo modo di lavorare o i suoi credo”. In una riflessione ancora successiva, Hamad va oltre e spiega quale fosse non solo il dato emotivo, ma anche le ragioni per le quali, a un certo punto, Hamas si sia sentita paralizzata dalla vittoria. “Noi avevamo deciso di entrare nel Parlamento, con la svolta del 2005. Non avevamo deciso di entrare nell’Anp”: solo opposizione, dunque, e nessun impegno né interesse a diventare una forza di governo. “Per questo Hamas era confusa,” conclude Ghazi Hamad. “Il tempo che avevamo era troppo stretto perché potessimo cambiare ideologia di colpo, bilanciare ideologia e politica, essere resistenza e Autorità.”
Ma allora, se è vero che le urne hanno smentito i sondaggisti, che la realtà ha superato qualsiasi previsione, perché l’elettorato palestinese ha deciso di votare en masse per Hamas, punendo Fatah in maniera così smaccata? Il voto politico del 2006 non è stato solo, né soprattutto, un voto di protesta. Così è stato interpretato dalle cancellerie occidentali, e anche da buona parte del circo mediatico. Taluni in buona fede hanno pensato che solo un voto di protesta avrebbe potuto far vincere un movimento come Hamas, che avrebbe costretto i palestinesi a iniziare un nuovo, molto più faticoso percorso verso gli israeliani. Riconsiderando soprattutto l’era post-Oslo e rimettendo mano, in maniera pesante, all’Autorità nazionale palestinese. Altri, meno in buona fede, in questo modo hanno fornito al mondo politico e all’opinione pubblica occidentale la lettura più semplice e semplificata del modo in cui i palestinesi hanno esercitato il loro diritto di elettori. La conclusione degli attori politici che hanno gestito il boicottaggio di Hamas e la graduale chiusura verso il governo monocolore emerso dalle elezioni del 25 gennaio 2006 è stata, addirittura, la necessità di riconsiderare l’esportazione della democrazia in termini occidentali verso il mondo arabo, non perché la democrazia non si esporta per principio, ma perché la democrazia esportata ha fatto quasi sempre vincere movimenti islamisti.
Quello che è successo il 25 gennaio del 2006 è stato altro, molto altro. I palestinesi di Cisgiordania e di Gaza sono arrivati alle urne dopo aver già sperimentato, per tutto l’anno precedente, l’esercizio del voto. Non stavano, dunque, vivendo un momento di emozione collettiva nei confronti di seggi, schede, inchiostro indelebile, perché il voto era qualcosa di ambito e lontano nella memoria. Avevano eletto Mahmoud Abbas esattamente un anno prima. E a decidere che Abu Mazen sarebbe stato il successore di Yasser Arafat non erano stati solo i clientes di Fatah e dell’Autorità nazionale. All’interno di quella maggioranza importante che aveva designato Abbas come presidente dell’Anp, c’erano anche settori della società legati a Hamas. C’è, insomma, una precisa ragione politica per la quale la maggioranza dei palestinesi ha votato Hamas. È una ragione che attiene alle decisioni assunte dal movimento islamista formalmente il 23 gennaio del 2005: una tregua unilaterale, raggiunta assieme alla Jihad islamica (che l’avrebbe invece rotta più volte), che ha messo nei fatti la parola fine alla stagione degli attentati terroristici compiuti da Hamas dentro l’Israele disegnata dai confini dell’armistizio del 1949. L’Israele dentro la Linea verde, per intenderci. La fine degli attentati suicidi dentro le città israeliane, il sostanziale stop alla Seconda Intifada e la scelta partecipativa vengono interpretati dalla popolazione palestinese come una precisa proposta politica: un’alternativa a chi aveva governato, controllato, egemonizzato fino a quel momento. Una proposta che pone allo stesso tempo nuovi limiti – de facto – alla strategia di resistenza di Hamas. Il movimento islamista non è stato, quindi, scelto unicamente per protesta contro la corruzione, il clientelismo e l’inefficienza di Fatah come partito che si è spesso confuso con l’Anp. Corruzione, clientelismo e inefficienza che si sono coniugate, almeno dal punto di vista temporale, con il fallimento della pace disegnata da Oslo e i “fatti sul terreno” realizzati dagli israeliani ai danni di una continuità geografico-politica del futuro stato palestinese (in sostanza, l’espansione senza soluzione di continuità degli insediamenti e dell’impresa delle colonie). La decisione partecipativa di Hamas, unilaterale e rigorosamente rispettata, viene percepita dalla popolazione palestinese come la reale apertura di una nuova fase nata dalle ceneri della Seconda Intifada e dalla morte di Arafat, in cui Hamas riscuote in termini politici quanto espresso sul terreno: il confronto armato con gli israeliani, ma anche in parallelo la cura dei settori più deboli della società.
Quelli di Hamas erano considerati persone serie, persone che non si erano arricchite alle spalle del popolo, anzi continuavano a vivere nei quartieri normali e nei campi profughi. Caso esemplare, Ismail Haniyeh nel campo di Shati, a Gaza, residenza peraltro di molti dei dirigenti della generazione di mezzo, nonché – per un lungo periodo – anche di sheykh Ahmed Yassin. E nonostante molti dirigenti di Hamas parlino con imbarazzo del Mithaq, la Carta stessa indica alcuni dei comportamenti di carattere morale che sono stati seguiti da almeno tre generazioni di attivisti e dirigenti. “È un dovere per tutti i membri del Movimento di resistenza islamica,” recita l’articolo 21, “condividere la felicità e il dolore del popolo, ed essi devono considerare un loro dovere esaudire le richieste del popolo e fare quello che sarà di loro giovamento.” Peraltro, è proprio questo mescolarsi nella società che fa mettere insieme la gestione della politica con l’appartenenza a una società, a ricomporre – paradossalmente – una realtà, quella palestinese, che i politologi hanno più volte descritto come spaccata tra stato e società civile, tra istituzione e network sociali, tra una struttura di potere gestita in maniera paternalistico-autoritaria da Arafat e una rete di organizzazioni che formava una realtà parallela. È Mussa Abu Marzuq, in una sorprendente uscita pubblica sul “Washington Post”, a neanche una settimana dalla vittoria decretata dalle urne in Cisgiordania e Gaza, a dare in casa islamista questo tipo di lettura, più compiuta e complessa, del voto. Definisce il risultato elettorale “un’alternativa della società civile cresciuta dall’urgenza della situazione”. Il numero due dell’ufficio politico all’estero conferma in questo modo la tesi del doppio binario in cui si è espressa la partecipazione politica in Cisgiordania e Gaza dopo l’entrata in vigore degli Accordi di Oslo. Dalla nascita dell’Autorità nazionale palestinese fino alle elezioni del gennaio 2006, vi sono stati due modi di partecipare alla res publica: dentro la struttura dell’Anp, e cioè dentro il sistema di potere creato da Yasser Arafat, oppure nella società civile. Intendendo per società civile quella complessa struttura di organizzazioni non governative, associazioni di beneficenza, sindacati, ordini professionali, associazioni di genere, comitati locali disseminati per tutto il territorio, organismi di ispirazione laica o religiosa, progressista o conservatrice, spesso nati durante la Prima Intifada e cresciuti nei due decenni successivi in un rapporto flessibile con l’Autorità nazionale. In alcune fasi, peraltro, questa dicotomia tra società civile e istituzioni dell’Anp ha rappresentato anche la divisione tra la società palestinese rimasta in Cisgiordania e Gaza dopo le guerre del 1948 e del 1967, da una parte, e dall’altra l’élite giunta dall’esilio per occupare le posizioni più importanti e direttive dentro l’Autorità nazionale, al seguito del rais Arafat.
Pur facendo parte, come la maggioranza degli esponenti dell’Olp, e in particolare di Fatah, arrivati nei Territori occupati nel 1994, di quell’élite in esilio, Abu Marzuq coglie ugualmente uno degli elementi più importanti per capire quello che è successo dentro le urne palestinesi, il 25 gennaio del 2006. È stata quella società civile, punta di diamante di una maggioranza silenziosa che ha vissuto dall’interno, da Cisgiordania e Gaza, tutte le fasi della storia palestinese post-1948, a dare a Hamas la possibilità di provare la sua capacità di governare. Per quale motivo? “Attraverso il suo retaggio legato al lavoro sociale e al coinvolgimento nei bisogni del popolo palestinese”, per il quale Hamas è stato considerato una “forza sociale che si è battuta per il benessere di tutti i palestinesi”, scrive ancora Abu Marzuq, che dà anche, per la prima volta, il senso del profondo cambiamento ideologico del movimento islamista, quando descrive il “cuore del mandato” dei deputati eletti nella lista Riforma e cambiamento. “Alleviare le condizioni debilitanti dell’occupazione, e non [istituire] uno stato islamico.”
È come se, attraverso le elezioni del gennaio 2006, Hamas fosse tornato a essere i Fratelli musulmani, abbandonando il vestito rivoluzionario per indossare di nuovo il doppiopetto. Il richiamo alle condizioni sociali, fatto da Mussa Abu Marzuq, è fondamentale, perché ricorda la politica dell’Ikhwan palestinese soprattutto nel periodo post-1967, quando i Fratelli musulmani sotto la guida dello sceicco Ahmed Yassin decisero di concentrarsi sulla formazione del buon musulmano, sul settore educativo e sul network sociale per fondare le radici del movimento. Quell’eredità, ricordata da Abu Marzuq, torna alla superficie mettendo nel contempo sempre più in evidenza la dicotomia tra Fatah come partito-stato e l’opposizione che aveva scelto di crescere ed essere rappresentata soltanto dentro le organizzazioni della società civile. Tanto da far dire a qualcuno, seppur riferendosi alle Ong e ai settori laici, che “la società civile è l’opposizione”. È in questa definizione a prima vista riduttiva, che sta il nodo delle elezioni del 2006: non un voto di protesta, se non nella misura in cui dà le pagelle ai dirigenti dell’Anp e di quella parte di Fatah che non trova la sua ragion d’essere nel rapporto con la base e il consenso popolare.
Fonte: Lettera22
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