Il format unico che nega il confronto
La redazione della Marcia
Notizie scomode, persone e storie invisibili, inghiottiti da un mercato mediatico, sempre più omologato.
Se cultura ed educazione traggono la propria forza dal confronto, la mancanza di spazi e di alternative costituiscono un grave vulnus. E questo dipende da un cattivo stato della libera informazione. La situazione italiana, su questo versante, non è sicuramente delle migliori, come ricorda Roberto Morrione, presidente dell'osservatorio Libera Informazione. «L'Italia è considerata un paese parzialmente libero secondo l'analisi di Freedom House» precisa l' ex direttore di Rai News 24. Freedom House prima, Reporters Sans Frontières dopo, ma il risultato non cambia. Che sia il 72 esimo o il 49 esimo posto nella classifica stilata, l'Italia rimane sempre il fanalino di coda in Europa, denotando una situazione sempre più grave nel rapporto atavico tra stampa e potere, reso ancora più grave da quegli aggiornamenti normativi, come il Ddl sulle intercettazioni, che potrebbero far precipitare la situazione. Lampante come la conseguenza di un risicato afflusso di notizie e informazioni non sia foriero di confronto e crescita. Secondo Ottavio Olita, rappresentante Usigrai, fare pace con l'informazione significa «conoscere un'altra Italia, raccontarne un'altra». La capacità di raccontare un paese in crisi, senza nascondere, oppure sapere rincorrere le notizie anche quando non sono conformi allo stilema delle bad news: «se c'è un positivo sia raccontato, anche nel nostro mondo, quello della scuola» afferma Francesco Butturini, preside ldel iceo classico Scipione Maffei di Verona.
Le cause di questa scarsa informazione, laddove non legate a motivi politici, vanno riscontrate nello stesso sistema editoriale. Ne dà conferma Roberto Savio di Ips, con una rapida ma interessante analisi dalla quale emerge come la concentrazione dei media e la conseguente omologazione dei contenuti sia ormai quasi totale. «Gli editori, negli ultimi anni, sono passati da 800 a 300, anche le immagini di eventi internazionali che circolano sono sempre le stesse, dato che ormai a fornirle sono solo tre agenzie». La gran concentrazione editoriale implica un approccio giornalistico simile tra i magnati che governano i media: ne deriva un simile modo di vedere il mondo che lima ancor più le differenze. A volte il linguaggio stesso ne è complice il linguaggio, sciatto e sempre meno ricco, dove la sintesi e l'agilità di scrittura scadono nel banale, non riuscendo più a veicolare contenuti.
Uno sforzo è dunque richiesto al mondo dell'informazione, per cercare la verità, e al pubblico, che quella verità deve esigerla. «Basta con le liste di proscrizione, ma quelle verso la cultura e l'informazione, spesso oscurate, con conseguente impotenza di scegliere – dice Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 – laddove regna il format unico si rischia l'oscuramento», invitando i media a dare spazio agli invisibili. “Ti illumino di +” è proprio questo, una campagna per dare spazio a chi non ne ha, per non lasciare sepolte le notizie e impedire il trionfo dell'industria della paura e del compromesso.
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“La Somalia è un luogo pericoloso per fare giornalismo”. Lo aveva ribadito ieri Omar Faruk Asman, giornalista somalo, ricordando i ventisette colleghi rimasti uccisi negli ultimi ventiquattro mesi. E aveva parlato di un ruolo fondamentale, di “occhi, bocca e orecchie del pubblico”, riconosciuto e da molti temuto, alla base di quei feroci omicidi. Un clima che l'Italia conosce bene proprio perché in Somalia ha visto portate via le vite di una giornalista, Ilaria Alpi e del suo operatore, Miran Hrovatin. Uccisi, barbaramente, in quel di Mogadiscio. Anno 1994. Sedici anni in cui il vero movente e la verità tutta su quel caso ancora non sono emersi. Al momento, infatti, nulla è chiaro, e la parola giustizia rimane impalpabile, nonostante una sentenza arrivata nel 2003 e alcuni gravi incidenti di percorso istituzionali, come la commissione parlamentare di inchiesta, che riuscì a bollare il lavoro dei due inviati del Tg3 come “una vacanza”. Magari da evitare.
A cercare di dare una svolta a tante incertezze, il Premio Ilaria Alpi, da anni punto di riferimento per le inchieste giornalistiche, ha da pochi giorni lanciato una raccolta firme per chiedere giustizia e soprattutto chiarezza sul caso. Incontriamo Francesca, collaboratrice del Premio, fuori dal seminario “Facciamo Pace con l'informazione”. Ci spiega che “a 16 anni dalla morte di Ilaria e Miran ancora non si è giunti a una verità soddisfacente».Sottolineando con passione come “La condanna a cui si è giunti nel 2003 è parsa un capro espiatorio, che non fa, di fatto, luce sull'esecuzione”. Memoria necessaria anche per il giornalismo stesso che non può rimanere alla finestra a piangere i propri morti, senza richiedere la verità.
L'intricato giro di rifiuti tossici, alla base, con grande probabilità, dell'uccisione dei nostri connazionali, rimane un caso da riaprire: tremila firme finora, l'obiettivo è di arrivare a diecimila, consegnarle in ottobre a Napolitano e preme per togliere la polvere alla vicenda giudiziaria. Si spera che in tanti si uniscano alla richiesta dei genitori di Ilaria che, come ricorda Francesca, “sono felici dell'iniziativa e, pur nel dolore, non perdono grinta e tenacia, annunciando di volersi costituire parte civile in caso di riapertura del processo”. Anni di menzogne e mezze verità che non possono essere l'unica risposta a chi ha visto cadere facendo il proprio lavoro, due ragazzi, due colleghi, due operatori di verità.
Perugia, Teatro Pavone
15 maggio 2010