I troppi nove zeri del traffico d’armi
Marco Cochi
Si spendono ancora cifre da capogiro per l’acquisto di materiale bellico e si lasciano solo le briciole per investimenti sullo sviluppo e sulla lotta alla povertà, mentre i governi occidentali traggono immensi vantaggi economici dai conflitti attraverso il mercato (più o meno lecito) delle armi.
«Ci sono più di 550 milioni di armi in circolazione nel mondo. Un'arma ogni dodici persone. Il mio compito è armare le altre undici». Con queste parole il premio Oscar Nicholas Cage, negli eleganti panni del trafficante di armi Yuri Orlov, apre la prima scena del film Lord of war (Il signore della guerra). La pellicola, distribuita due anni fa nelle sale cinematografiche italiane, racconta con i mezzi e lo stile del cinema hollywoodiano vicende ispirate a fatti reali. Come il "colpo del secolo" portato a termine in Ucraina: a cavallo del 1989 un grosso quantitativo di armi in dotazione all'Armata Rossa sono state rubate e rivendute in Africa per un valore di 32 miliardi di dollari. Un film denuncia che prova a raccontare al grande pubblico il dramma atroce del commercio delle armi ai paesi poveri. Dittatori di repubbliche delle banane che bruciano le risorse delle loro nazioni affamate per conflitti sanguinosi. Mercanti di morte senza scrupoli che costruiscono fortune sguazzando nella zona grigia tra legalità e illegalità. Democratici governi occidentali che chiudono un occhio perché l'industria bellica gonfia il Pil. E perché, come dirà al momento della cattura il trafficante ucraino naturalizzato americano (personaggio di fantasia "costruito" con le storie autentiche di cinque colleghi realmente esistiti), «il più grande mercante d'armi è il tuo capo (cioè l'inquilino della Casa Bianca, ndr), che a volte ha bisogno di me per non lasciare le sue impronte digitali sulle armi vendute ai paesi nemici dei nemici degli Stati uniti. Io sono un male necessario». E Yuri Orlow viene scarcerato…
Gli Stati Uniti, in realtà, sono solo uno dei cinque grandi produttori mondiali: Russia, Francia, Germania e Cina gli tengono buona compagnia. I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e uno che spera di diventarlo. Le stesse Nazioni Unite che nel 2001 hanno adottato un piano per fermare il commercio illecito di armi. Intanto, trascorsi sei anni, si spendono ancora cifre da capogiro per l'acquisto di materiale bellico e si lasciano solo le briciole per investimenti sullo sviluppo e sulla lotta alla povertà, mentre i governi occidentali traggono immensi vantaggi economici dai conflitti attraverso il mercato (più o meno lecito) delle armi. A parlare sono i dati relativi ad un traffico dai contorni ancora sfumati, diffusi recentemente dall'International Peace Research Institute (Sipri) di Stoccolma, secondo il quale nel mondo si spende sempre di più per le armi e la guerra in Iraq e in Afghanistan ha portato alle stelle gli stanziamenti per gli approvvigionamenti militari. Secondo l'annuale studio europeo sulla spesa in armamenti, nel 2006 è stata registrata una crescita del 3,5 per cento. Gli Stati Uniti hanno investito in armi 529 miliardi (poco meno dell'intero Pil dell'Olanda) con un aumento della spesa pari al 5 per cento. Lo Sipri ha anche fatto i conti in tasca all'amministrazione di Washington e ha calcolato che tra impegni a breve e lungo termine, la guerra in Iraq costerà agli americani 2.267 miliardi di dollari entro il 2016. Anche la Cina, impegnata in una modernizzazione dell'apparato militare che preoccupa la Casa Bianca, ha registrato un deciso boom della spesa, passando dal 44,3 miliardi di dollari del 2005 ai 49,5 miliardi del 2006.
Il grosso delle forniture militari viene da Russia e Stati Uniti, che insieme contano il 30 per cento delle esportazioni, mentre dai paesi membri della Ue (Italia compresa) viene un altro 20 per cento. I maggiori importatori restano Cina e India, anche se ben cinque Paesi mediorientali compaiono nella top ten degli acquirenti: su tutti, Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Nel rapporto del Sipri non sono contenuti i dati relativi al commercio clandestino di armi, ma secondo gli esperti detto commercio è aumentato del 4,7 per cento in concomitanza con l'aumento dei paesi sotto embargo e con il dilagare dei conflitti e microconflitti per il controllo delle risorse, specialmente nel continente africano, in Iraq e in Afghanistan. Un aspetto troppo spesso trascurato, per quanto riguarda le spese militari di alcuni stati, è quello del cosiddetto acquisto per conto terzi. Questa fattispecie si verifica quando uno Stato finanzia i vari movimenti armati di alcuni paesi e incide in modo significativo sulla somma totale. La "guerra al terrorismo" ha contribuito notevolmente a rimpinguare i già cospicui conti bancari dei mercanti di morte, mentre il dilagare dei conflitti ha creato altri milioni di poveri nel mondo, alla faccia delle buone intenzioni dichiarate nei vari contesti e riunioni pubbliche. Una nota a margine la merita l'Italia. Il nostro Paese è il secondo esportatore e quarto produttore mondiale di armi leggere («le vere armi di distruzione di massa», come afferma un rapporto dell'Institut Universitaire de Hautes Études Internationales). Se si pensa che secondo le ultime stime della Banca Mondiale quasi un miliardo di persone deve vivere con meno di un dollaro al giorno e che basterebbe poco più di un centesimo di ciò che si spende ogni anno in armi per dare acqua e infrastrutture igieniche a tutta l'umanità. Da quando Raoul Follereau, negli anni Settanta, invitava Usa e Urss a rinunciare a un bombardiere a testa per fermare la fame nel mondo, poco è cambiato.
Fonte: La Voce d'Italia
14 gennaio 2008