I giorni bui di un Israele nazionalista
Abraham B. Yehoshua
Abraham B. Yehoshua spiega la vera ragione del suo silenzio. “Lo sconcerto che provo dinanzi alla diffusione di nuovi, sconosciuti e gravi fenomeni di sciovinismo nazionalista e di allarmante estremismo religioso in una società della quale credevo di conoscere, nel bene e nel male, tutti i codici”.
È passato molto tempo da che ho scritto un articolo su ciò che accade in Israele. Mi sono chiesto se questo fosse dovuto alla recente uscita del mio ultimo romanzo: gli ultimi ritocchi alle bozze, l'invio delle prime copie agli amici e, naturalmente, l'emozione e l'attesa delle reazioni forse mi hanno distratto dai recenti avvenimenti del mio Paese. Ma dopo un esame di coscienza ho capito che questi non sono che pretesti. La vera ragione del mio silenzio è lo sconcerto che provo dinanzi alla diffusione di nuovi, sconosciuti e gravi fenomeni di sciovinismo nazionalista e di allarmante estremismo religioso in una società della quale credevo di conoscere, nel bene e nel male, tutti i codici.
In effetti i rappresentanti della mia generazione (e non importa se di sinistra o della destra moderata) che hanno accompagnato da vicino la crescita dello stato ebraico a partire dalla fine degli Anni 40, che per più di sessant'anni hanno partecipato attivamente alle lotte, interne ed esterne, per la sua esistenza e alla formulazione di convenzioni e di norme che ne regolano l'identità, rimangono sbigottiti e confusi dinanzi alla ventata di nazionalismo che cerca di minare quelle stesse norme. Un nazionalismo radicale che attinge da due fonti all'apparenza contraddittorie: da un lato i recessi oscuri della religione ebraica che, accanto a valori di carità e di amore per l'uomo, presenta anche aspetti di evidente razzismo. Dall'altro (sorprendentemente di origine secolare) il vecchio totalitarismo sovietico importato da Lieberman e dal suo partito.
Vero, in tutto il mondo il fondamentalismo religioso e il nazionalismo sono fenomeni in crescita. Rimaniamo sorpresi nel riscontrare queste tendenze in Ungheria, in Olanda, e persino qua e là nelle nazioni scandinave. Anche la nuova destra americana infrange regole ritenute intoccabili dalla vecchia. Ma tutti questi Paesi possiedono una solida identità nazionale e non devono fare i conti con nemici esterni. In Israele, invece, l'identità nazionale è ancora agli inizi. Ci sono abissali differenze tra laici e religiosi, una grande eterogeneità di gruppi di ebrei di provenienze e culture diverse, e una cospicua minoranza di arabi israeliani che rappresenta circa il venti per cento della popolazione. Tutto questo rende complicato mantenere un fondamentale senso di solidarietà sociale, fragile e incline a essere influenzato.
Assistiamo dunque a uno strano paradosso. Nell' opinione pubblica israeliana si rinsalda la convinzione generale che il consenso, in linea di principio, alla creazione di uno Stato palestinese sia la soluzione al conflitto con i palestinesi (anche se per molti questo consenso si accompagna alla pessimistica sensazione, giustificata o no, che la creazione di uno Stato palestinese avverrà in un futuro molto lontano). Persino l'ultra nazionalista ministro degli esteri Lieberman è teoricamente d'accordo con questo principio. Ma quanto più i toni del dibattito sulla creazione di questo stato si smorzano, e le reali differenze politiche sul tema scompaiono, tanto più in Israele si risveglia un'impetuosa ondata nazionalista che tende a ledere inviolabili diritti civili e a pretendere strambe dichiarazioni di fedeltà alla patria, pena la revoca della cittadinanza. Così, a momenti, sembra che l'energia che in passato era diretta verso nemici esterni sia ora convogliata verso «nemici interni», considerati dalla destra nazionalista sostenitori delle forti critiche verso Israele da parte dell'Europa. Critiche che arrivano a toccare livelli assurdi, quali la delegittimazione dello Stato ebraico, per esempio. E i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani sulla violazione dei diritti dei palestinesi nei territori, o sul comportamento brutale di alcuni soldati che violano il codice morale militare, sono visti da una parte dell'opinione pubblica israeliana quasi alla stregua di un tradimento, quando invece, per molti anni, uno dei punti di forza di Israele è stato quello di concedere piena libertà di espressione ad autocritiche ideologiche pertinenti, e alla possibilità di affrontarle pubblicamente, nel bene e nel male, senza attribuirle a fonti straniere ostili che la alimentano.
E benché sia principalmente la destra estremista a cavalcare quest'onda (con la silenziosa complicità di quella classica di Netanyahu e di alcuni esponenti del centro all'opposizione) anche l'universo religioso, con tutte le sue correnti, diventa sempre più oltranzista, inventando nuovi divieti e forme di tormento. Chi avrebbe mai pensato che nella mia città natale, Gerusalemme, sarebbe stata introdotta la separazione tra donne e uomini su alcune linee di trasporto urbano? Chi avrebbe mai pensato che gli ultra ortodossi avrebbero «conquistato» interi quartieri in varie città proibendo ai loro seguaci di affittare appartamenti agli arabi? Il ritorno al giudaismo non si esprime soltanto con lo studio di testi antichi ma anche con l'esistenza di due partiti politici controllati da anziani rabbini che impartiscono ordini e istruzioni a membri della Knesset e a ministri del governo su come comportarsi e come votare.
E cosa fa la sinistra? Anziché essere un po' più attiva sulla scena politica o ideologica si occupa di cultura. Non c'è mai stato in Israele un periodo di fioritura culturale come quello attuale. Con una popolazione di meno di sette milioni di abitanti il paese sforna decine di produzioni teatrali di tutti i generi, le sue straordinarie compagnie di ballo ottengono riconoscimenti in tutto il mondo, l'industria cinematografica è dinamica e originale, l'opera lirica è attiva e vivace, musicisti di talento riempiono le sale da concerto e numerosi libri, di narrativa e saggistica, sono tradotti in lingue straniere.
Ma sul piano politico l'attività della sinistra è limitata e debole. A eccezione di qualche sporadica manifestazione i partiti progressisti sono più che altro occupati in litigi e scissioni. Qualche loro rappresentante sostiene addirittura la coalizione Netanyahu – Lieberman mentre circoli ultra-liberali non fanno distinzione tra la tutela degli importanti diritti degli arabi israeliani e l'automatica difesa di infiltrati illegali africani. La sinistra ha da tempo perso contatto con i ceti popolari e appare debole, lamentosa e confusa.
La recente spaccatura del Labour e le dimissioni di Ehud Barak da presidente del partito potrebbero essere un'occasione di ripresa dell'ala socialdemocratica. Oppure no. I restanti otto membri del partito alla Knesset potrebbero anche mettersi a litigare su chi sarà il prossimo presidente. Triste.
Fonte: La Stampa
24 gennaio 2011