Helmand, la popolazione civile ostaggio della guerra
Emanuele Giordana - Lettera22
Il bilancio dell’Operazione “Insieme” si conoscerà solo tra qualche giorno. Per ora le notizie restano frammentarie con un conto di militari della Nato o di “talebani” uccisi e feriti ancora tutto da verificare.
Le virgolette sono d'obbligo in questa guerra che ha fatto, sinora, più vittime civili (al ritmo di oltre 2mila all'anno) rispetto ai soldati in divisa o a quelli in turbante che pure hanno pagato un prezzo importante in termini però di centinaia, sempre che la morte possa essere valutata con l'aritmetica.
Ma se la verità è ancora da conoscere qualche dubbio è bene avanzarlo. Il primo riguarda proprio l'utilizzo dei civili come massa di manovra del conflitto. A quanto raccontano a “il manifesto” fonti locali, sia la Nato sia i talebani hanno mandato alla popolazione di Marjah messaggi controversi. La Nato ha fatto sapere che la gente avrebbe dovuto restare al suo posto con le dovute cautele (messaggio inviato con volantini aviotrasportati) ma poi alcuni “rumores” , attribuiti all'Alleanza, avevano sommessamente invitato la gente a lasciare un'area che è sotto bombardamento da diversi giorni: la famosa fase “shape”, ossia il tallonamento aereo prima dell'inizio dell'attacco di terra (“clear”), il combattimento vero e proprio. I talebani non avrebbero agito diversamente ma utilizzando la tattica opposta: prima avrebbero detto ai residenti di lasciare l'area. Poi, di restare. In questa confusione i comandi militari hanno messo in guardia i locali dal dare ospitalità ai combattenti: una scelta che non dipende però dal singolo contadino ma dal kalashnikov che qualcuno gli punta davanti.
Le dichiarazioni Nato pre offensiva hanno comunque messo in chiaro che “la popolazione non è il nostro nemico” come ha detto il generale Larry Nicholson al comando dei marine del Sud Afghanistan, semmai “la ricompensa” dell'offensiva. Ancor prima il generalissimo Stanley McChrystal aveva detto: “Non vogliamo un'altra Falluja. Non è Falluja il nostro modello”. Queste le intenzioni.
Molti però hanno espresso dubbi su come “distinguere combattenti e civili”, vecchia querelle reiterata da Humann Rights Watch “specie quando si usa la forza dall'aria”. Una cautela rinforzata da un reportage del Wall Street Journal che, qualche giorno fa, riferiva di come, secondo alcuni comandanti militari in certe aree il 95% delle persone sarebbero talebani o loro sostenitori. Con questa impostazione, che denunciava anche una certa fatica ad accettare regole di ingaggio meno pressanti che in passato, che rischi si corrono? Quello di un “esercizio di retorica – dicono gli analisti dell'International Crisis Group – se la Nato non saprà evitare una strage di civili non importa quanti talebani vengano sbaragliati”. Di popolazione civile ha parlato anche un comandante talebano dicendo che i suoi uomini si erano ritirati per “non provocare vittime”. La popolazione in mezzo. Come sempre
Intanto però c'è chi si è mosso da una zona ritenuta pericolosa. Già l'8 febbraio, dopo una giornata di intensi bombardamenti “preparatori”, centinaia di persone avevano lasciato Marjah (il distretto conta 125mila abitanti). Ieri pomeriggio le Nazioni Unite (che hanno lanciato un appello sulle conseguenze umanitarie dell'offensiva) e la Croce rossa avevano contato l'arrivo di circa 900 famiglie a Lashkar Gah, che già stanno ricevendo assistenza. Ma che la situazione resti tesa lo racconta anche un altro episodio. Ieri a Kandahar, la capitale della provincia attigua, ad alta densità talebana come l'Helmand, si era diffusa la notizia che almeno sette kamikaze erano in cerca del proprio obiettivo.
Fonte: www.lettera22.it