Hamas tra muqawwama e sdoganamento


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Cosa succede dentro Hamas? C’è una parola che è tornata in auge nella retorica di Hamas, durante l’ultima guerra di Gaza, ed è muqawwama: resistenza.


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C’è una parola che è tornata in auge nella retorica di Hamas, durante l’ultima guerra di Gaza, ed è muqawwama. Resistenza, muqawwama appunto. Una parola – a dire il vero –  mai espunta dal linguaggio usato dai leader e dai militanti di Hamas in tutta la  sua esistenza, che nel prossimo dicembre celebra il quarto di secolo. Muqawwama, anzi, è parte costitutiva di un movimento, quello islamista palestinese, che ha inserito il termine nello stesso acronimo che lo definisce: Hamas, movimento di resistenza islamico.

Dov’è, allora, la differenza rispetto al prima? La differenza è tutta negli ultimi cinque anni,  dal 2007 a oggi, da quando Hamas non è più solo movimento, ma è anche – e sempre di più – regime. Un regime, una burocrazia, un governo che controlla un territorio con limiti  ben precisi, definiti dal confine che chiude – anche con l’embargo – la piccola Striscia di Gaza. Hamas, in sostanza, è anche accusato di non essere più un movimento che fa ‘resistenza’ contro Israele: la fronda a destra dello spettro politico, nel magmatico fronte salafita e jihadista, lo accusa di essersi moderato per mantenere il suo potere e di non fare più nulla per rompere un assedio che comprende ancora non solo i confini con Israele ma anche il valico di Rafah verso l’Egitto. L’opposizione laica, che esprime a sua volta anche fazioni armate, lancia le medesime critiche a Hamas, accusato di essere a questo punto solo regime.

I problemi di consenso interno verso il regime di Hamas si coniugano dunque, a Gaza, proprio con un termine che rimbalza sempre di bocca in bocca, ad ascoltare la strada palestinese, come fosse colla per tenere assieme una popolazione sola e disperata. Muqawwama  lo dicono i bambini, i grandi, i laici, gli elettori di Hamas.

La breve guerra di Gaza, costata la vita a circa 170 palestinesi dentro la Striscia, ha ridato a Hamas un consenso che aveva eroso nel giro di pochi anni. A giudicare dalle prime reazioni della strada, infatti, tutti riconoscono a Hamas di essersi riappropriata del confronto armato verso Israele, lasciato negli scorsi anni soprattutto alle altre fazioni armate. Stavolta, nella breve e sanguinosa guerra di Gaza, Hamas ha rivendicato il lancio di razzi e missili, mostrando – anzi – un rafforzamento del proprio ‘arsenale’ militare.

Detto tutto questo, però, il consenso interno successivo alla guerra di Gaza non potrà durare all’infinito, se le porte dei confini della Striscia, a nord verso Israele e a sud verso l’Egitto, non si apriranno. Non solo. Il consenso più allargato e compatto di questi giorni copre, ma solo superficialmente, un confronto tra due ali del vertice di Hamas che sono lungi dall’aver appianato le proprie divergenze.

Poco si sa del confronto tra l’ala maggioritaria a Gaza e l’ufficio politico di Hamas fuori dai Territori palestinesi. Qualcosa è filtrato quando Khaled Meshaal ha fatto sapere di non volersi ricandidare alla guida del politburo, mostrando le ambizioni di Ismail Haniyeh che vanno oltre la Striscia di Gaza e fondano proprio sul suo premierato e sulla territorialità del suo potere. Di certo è che Hamas vive, durante, dopo e a causa del Secondo Risveglio arabo, una fase di transizione importante, sulla quale è piombato anche l’omicidio mirato di Ahmed al Jabari, capo dell’ala militare, figura divenuta via via più importante, travalicando la dimensione militare del suo ruolo e posizionandosi anche all’interno della dimensione politica.

Quanto, dunque, inciderà la scomparsa di Jabari dal vertice? A prima vista, ripercorrendo la storia del movimento islamista palestinese, si dovrebbe rispondere che no, la scomparsa di Ahmed al Jabari non inciderà più di tanto. Hamas è un movimento complesso, strutturato in modo simile a un partito di massa, e dunque le individualità sono importanti tanto quanto è importante l’insieme delle sue constituency. Uno scossone, comunque, ci sarà nel movimento, soprattutto nel vertice, proprio per la fase di transizione che sta vivendo.

È, però, più il contesto regionale a incidere. Perché la transizione da un capitolo all’altro della storia di Hamas coincide con le nuove alleanze che il movimento sta rafforzando. Diminuisce, cioè, il ruolo dell’Iran, nonostante Khaled Meshaal ne abbia ricordato l’appoggio militare nell’ultima conferenza stampa al Cairo. L’alleanza tattica con Teheran sta da tempo cedendo il posto al rafforzamento delle relazioni con Egitto, Qatar e Turchia. Un rafforzamento che posiziona Hamas tutta dentro il Secondo Risveglio arabo, e dentro l’ondata vincente dell’islam politico regionale.

Chi vincerà, dunque, tra Meshaal, Haniyeh, Abu Marzouq? E’ ancora presto per dirlo, perché ora Hamas mostrerà il suo lato compatto, lo stesso che ha mostrato anche in Cisgiordania, con le dichiarazioni dei suoi leader. Il volto pragmatico di Hamas, rappresentato dalla figura più rappresentativa nella West Bank, Mahmoud A-Ramahi, è uscito allo scoperto proprio pochi giorni fa, in  una lunga intervista rilasciata ad Amira Hass per Haaretz. Era una intervista tutta politica, rilasciata a un giornale israeliano: la reazione, quasi immediata, è stato il nuovo, ennesimo arresto di Ramahi da parte delle autorità israeliane.

Fonte: http://invisiblearabs.com

24 novembre 2012

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