Giancarlo Siani, ucciso il 23 settembre 1985. Aveva osato raccontare le logiche di potere dei clan


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E’ un filo spezzato che si riannoda. E’ una storia che riparte da dove è stata brutalmente interrotta con la violenza e l’arroganza assassina della camorra.


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di Arnaldo Capezzuto

E’ un filo spezzato che si riannoda. E’ una storia che riparte da dove è stata brutalmente interrotta con la violenza e l’arroganza assassina della camorra. Sono trascorsi 28 anni dalla sua uccisione. Era il 23 settembre 1985, quando un commando di killer lo trucidò a colpi di pistola sotto casa mentre era a bordo della sua Mehari. Aveva osato raccontare, descrivere, svelare i meccanismi e le logiche di potere dei clan. Ne aveva capito, intuito e descritto la loro filigrana. Quei pezzi di verità da soli erano insignificanti ma incastrati, messi insieme con altri più lontani diventavano trama aberrante. Camorra, economia, colletti bianchi,politici, amministratori e codardi costituivano e costituiscono un unico blocco dalle mille, indecifrabili sfaccettature: affari, potere per il potere e patti segreti. Prima di tutti con lungimiranza, Giancarlo, ha descritto, raccontato, denunciato un nuovo e inquietante orizzonte criminale di una mala che si “mafizzava” e abbracciava la nascente Cosa nostra stragista di Totò Riina, quella degli omicidi eccellenti e, in seguito, delle autobombe di Capaci, di via D’Amelio e della trattativa con lo Stato.

Giancarlo Siani al “Il Mattino” era un abusivo, un “biondino” – adesso si direbbe un precario – uno senza diritti. Doveva solo faticare e stare zitto, muto. E’ la regola non scritta per imparare il mestieraccio. E’ nelle cose. Le commemorazioni e l’odore della naftalina c’entrano davvero poco con la breve vita di Giancarlo, uno normalissimo forse che neppure scriveva tanto bene ma che faceva domande e voleva capire. Lui era in prima linea, si è detto: un giornalista-giornalista. Non aveva scheletri nell’armadio, non aveva padrini, né padroni. Insomma in via Chiatamone sede de “Il Mattino” non doveva fare genuflessioni e inchini. Non aveva ancora un contratto di praticantato, forse non l’avrebbe mai avuto. La storia a volte si riscrive e si corregge.

Il senso di colpa è pesante anche a distanza di anni. Giancarlo suscita emozioni, accende passioni, mette le lacrime agli occhi. La sua è una storia che continua ad essere – nonostante tutto – generosa anche con i tanti professionisti dell’anticamorra, protagonisti di una continua appropriazione indebita di un nome, di un cognome e di un vissuto. Questa la sua grandezza. Sarebbe davvero bello leggere nella gerenza de “Il Mattino”: “Questo è il giornale di Giancarlo Siani”. Il mio è un ricordo nitido, ripescato nel retrobottega della giovinezza. Età acerba. Non c’era la consapevolezza, la sensibilità di oggi sui temi delle mafie.

Si viveva un po’ così: alla buona. Mi è tornato in mente, in bianco e nero. Il giorno dopo c’era un mazzo di fiori adagiato in strada. L’autobus era zeppo di persone, come adesso, non c’era spazio. Tutti stipati e traballanti. Dicevano che la sera prima avevano ammazzato un giovane: faceva il giornalista. Era un parlottare, un chiacchiericcio, uno strano brusio. “Non si ammazza così. Era troppo giovane”. “Vabbuò forse qualcosa aveva fatto”. “Ma siete sicuri che scriveva solo??”. Uno scetticismo che per oltre dieci anni ha inseguito e assediato la famiglia di Giancarlo, isolandola. Un sospetto odioso, anticamera di chissà quale verità segreta, inconfessabile. La calunnia è un venticello. Addirittura gli stessi giornalisti, gli stessi colleghi ne diffidavano, aggiungevano una velenosa parola sospesa a chiusura “Staremo a vedere!!”. Solo i giovani, i ragazzi, le nuove generazioni avevano capito tutto: “Giancarlo Vive”.

Frequentavo il secondo anno delle scuole superiori, avevo solo 15 anni. Non sapevo di camorra, clan, boss, affiliati, logiche di morte. Entrai in aula, c’era la mia professoressa d’italiano, Starace, un vero Pit Bull. Era rivolta con le spalle alla classe. Nessuno fiatava. Avevamo il terrore che interrogasse. Esitava. Si voltò. Piangeva. Gli occhi pieni di lacrime. Depose la maschera di professoressa arcigna e dura d’animo. Con un filo di voce, stringendo la mazzetta dei giornali tra le mani, ci parlò con il cuore in mano di quel giovane cronista. Lo conosceva. Lo seguiva. Ne apprezzava il candore, la spontaneità, la semplicità e l’immediatezza della scrittura. Nessuna oggettivazione eccessiva, sensazionalismo ma l’elasticità e sintesi: fatti e ragionamento. Conteneva la rabbia inspirando aria e trattenendo il fiato. In meno di un’ora, raccontò cos’era per lei un giornale. Spiegò cosa significasse raccogliere e scrivere le notizie. L’importanza di leggere e conoscere. L’essere informati per esercitare i diritti. Una lezione bellissima, appassionata, diretta. Restai ipnotizzato.

Per la prima volta nella mia: imparavo, assorbivo. Alla fine la Starace era un fiume in piena e forzò se stessa: “Quest’anno non seguirò il programma, voglio che impariate ad amare i giornali”. Ci supplicò di aprire gli occhi e guardare vedendo dentro i fatti. Per me studente svogliato con un giudizio di licenza media – poco lusinghiero – che consigliava l’allontanamento dai libri e l’uso della braccia per tutt’altra carriera fu come una scintilla. Un mondo si apriva.

Anni dopo. Forse in una vita inaspettata, mi giunse in redazione una lettera di minacce: “Smettila, altrimenti farai la fine di Siani”. Ne seguirono altre di intimidazioni. Neppure immaginavo che avrei fatto condannare chi voleva strapparmi con la violenza il taccuino dalle mani. Ecco quelle sentenze le ho dedicate – lo scrivo in punta di tastiera – al mio amico Giancarlo. E’ vero, Vive. La sua Mehari – lunedì mattina riaccende il motore – riparte da dove la violenza e la mano assassina la fermò. E’ un modo simbolico di far ripartire una storia, un modo concreto di riconciliazione di Giancarlo con la sua città, un atto forte per “fare memorie” in una coscienza collettiva che a volte sembra smarrita. Sulla Mehari con Giancarlo ci saranno i tanti cronisti, fotoreporter, operatori dell’informazione uccisi; le tante vittime innocenti della criminalità organizzata e del terrorismo. Questo viaggio comincia proprio da Napoli dove a volte anche il sole come la speranza scompare “bell e buono”, ingoiato nei vicoli bui. E quando meno te l’aspetti, senti un sussurro, segui un’impronta, raccogli le mollichine. Vedi guardando quell’auto dimenticata, dalla forma strana addirittura senza sportelli né tetto e pensi all’inconsapevolezza, di quel giornalista-ragazzino di 25 anni che sfidò a petto nudo, a volto scoperto i clan, esortando con i suoi scritti e parole a reagire perché la speranza si costruisce giorno per giorno. Giancarlo Vive!

FONTE: www.liberainformazione.org
23 settembre 2013

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