Gaza: le “eredità” di Piombo Fuso


Silvia Todeschini


Per andare a scuola i bambini della famiglia al Najar passano vicino ad una torre di controllo da cui i soldati israeliani sparano. Nell’ultimo mese sono stati mandati a casa tre volte prima della fine delle lezioni, a causa di incursioni e spari nell’area intorno alla scuola.


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Gaza: le "eredità" di Piombo Fuso

La moglie di Tareq ha la carnagione chiara e lentiggini, sotto il velo rosa si intravedono dei capelli nerissimi; gli occhi, profondi e scuri, si stagliano in dei lineamenti aggraziati, che ricordano di più l’estremo oriente che il vicino oriente. È molto magra e porta un vestito verde di cotone, mi domando come faccia a non tremare di freddo con una temperatura sotto i 10 gradi. Sta qui seduta su un secchio rovesciato all’aperto con 2 vicine di casa circondata da bambini e racconta la sua storia.
Fa parte della famiglia al-Najar, e spiega che prima dell’attacco di Israele «Piombo fuso» (alla fine del 2008), viveva con la sua famiglia in una bella casa. La casa era divisa in 2 parti: metà per lei e suo marito, metà per la famiglia del cognato. Durante l’invasione un missile sparato contro la casa dei vicini, dopo averla attraversata, ha rotto 3 muri della loro. Il 13 gennaio 2009, durante un’incursione di forze speciali, carri armati e spari li hanno costretti a rimanere in casa, 40 persone, più di 20 bambini. Una donna, Roya’a, presa dalla disperazione, esce dalla casa sventolando una bandiera bianca, sperando così di poter uscire e scappare in un posto più sicuro con la sua famiglia. I soldati israeliani le sparano, e lei, impossibilitata a muoversi, perde molto sangue. A causa degli spari e dei carri armati l’ambulanza non si più avvicinare, Yasmin, di 23 anni, prova ad avvicinarsi per prestarle soccorso, e le sparano ad una gamba. Un altro membro della famiglia, Mahmmod Al Najar esce dalla casa per prestare soccorso alle due donne: viene colpito alla testa e muore. Quando, 24 ore dopo, arriva l’ambulanza, Roya’a è morta dissanguata.

Rifornirsi di acqua potabile e' uno dei problemi quotidiani dei palestinesi di Gaza
Alcuni giorni dopo, quando è stato di nuovo possibile tornare, la casa era distrutta e con essa tutte le case attorno. Gli alberi di ulivo, alcuni anche di 50 anni, erano stati sradicati. Non era rimasto più nulla. Niente casa, niente ulivi ed alberi da frutto, niente terra da coltivare: nessun avere e nessuna fonte di sostentamento. Per un mese hanno ricevuto aiuti dall’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi) per comperare cibo e coperte, e per un anno hanno ricevuto soldi per pagare l’affitto. Ma dopo la guerra il prezzo degli affitti era aumentato ed i soldi non erano più sufficienti. Così si sono visti costretti a mettere su queste quattro mura in cemento e costruirci un rifugio attorno. Il tetto è di lamiera e dentro non c’è spazio per più di due piccole stanze, e si riconosce una veranda esterna formata da teli.
Rifugi si trovano a circa 350 metri dal confine, in quest’area la paura dell’esercito israeliano pervade ogni azione quotidiana. “Due o tre volte alla settimana ci sono carri armati che passano a poche centinaia di metri da casa nostra, qui sparano tutti i giorni, ormai non ci facciamo più caso. Però quando sparano più forte i bambini si impauriscono… la notte non riescono a dormire, hanno gli incubi, piangono. Poi, quando fa buio ci sono i branchi di cani, sono pericolosi, vengono liberati dai soldati al confine”. Nei due piccoli ripari abitano quattro famiglie, con 16 bambini.
Una delle bambine ha riportato gravi problemi agli occhi a causa del fosforo bianco ed è riuscita ad andare in Egitto per farsi curare ma non ha recuperato completamente la vista. Le quattro famiglie non si spostano dalla casa in un luogo sicuro perché non hanno altro posto dove andare.
Per andare a scuola i bambini devono percorrere una strada che passa vicino ad una torre di controllo da cui i soldati israeliani sparano, ed hanno paura. La scuola si trova anch’essa vicino al confine. Nell’ultimo mese i bambini sono stati mandati a casa tre volte prima della fine delle lezioni, a causa di incursioni e spari nell’area intorno all’edificio. Ai piccoli al Najar mancano i posti per giocare in maniera sicura ed è pericoloso stare a distanza dalla casa. “Dopo le 6 non ci possiamo allontanare, perché con il buio è pericoloso muoversi a causa degli spari. I nostri mariti hanno venduto le macerie delle case distrutte dal bombardamento perché venissero frantumate e vendute come materiale edile. Con i soldi ricavati abbiamo comperato il cibo per noi e per i bambini, ma ora non sappiamo più come fare: ci manca la farina per fare il pane…in casa non abbiamo coperte, non abbiamo mobili, fa freddo. Non arriva la corrente e abbiamo dei problemi per l’acqua potabile.”
La povertà può avere tante cause: più essere causata da un disastro naturale, come un’inondazione o un terremoto, può essere causata dal fatto che una qualche forma di disabilità impedisce di lavorare, sono tutte cause che nella maggior parte dei casi non è possibile evitare, questo provoca tristezza. Quando però la povertà è causata dal fatto che un Stato, in questo caso Israele, distrugge abitazioni, sradica ulivi, proibisce l’accesso a terreni coltivabili; quando preoccuparsi del futuro significa paura degli spari, ansia che uno di quei proiettili possa colpire i propri figli e figlie, e terrore negli occhi delle stesse figlie e figli; beh, allora la tristezza si declina in rabbia, e viene voglia di urlare, nella speranza che qualcuno possa ascoltare e porre fine a questo e molte altre orribili situazioni.

Fonte: Nena News

20 gennaio 2011

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