Flotilla, riflessioni a bocce ferme


Lettera22


Forzare il blocco di Gaza non è solo un atto politico e una dimostrazione delle regioni del pacifismo. Non lo è – scrive per Lettera22 Gianni Rufini – perché si è mischiata a quell’azione anche la componente umanitaria.


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Flotilla, riflessioni a bocce ferme

Passata l’emozione del momento terribile, lo shock della morte di nove persone, lo spettacolo della violenza, gratuita e tragica, forse è tempo di fare una riflessione critica su Freedom Flotilla. Il successo politico dell’iniziativa è stato evidente, sia pure ad un prezzo abnorme, così come è fuori discussione la solidarietà con le vittime di quella assurda aggressione. Ma da un punto di vista umanitario, quello di chi guarda alla possibilità di salvare delle vite a Gaza, i protagonisti di questa avventura hanno causato non pochi danni.

Sfruttare l’aiuto umanitario a fini politici è oggi una delle azioni più ricorrenti, e potenzialmente pericolose, nelle relazioni politiche. L’umanitarismo,  quell’idea universalistica per cui tutti abbiamo un uguale diritto all’assistenza, rimane l’unica area autenticamente “etica” nelle relazioni internazionali, il nucleo centrale e minimo del concetto stesso di “diritto”. L’asserzione più forte dell’uguaglianza  tra tutti gli uomini.

Per questa ragione, alcune migliaia di organizzazioni in tutto il mondo, provenendo da aree geografiche, culturali e politiche molto diverse, condividono e lavorano attivamente per tutelare quei principi. Si sforzano di garantire in tutti i modi un’assistenza che permetta di salvare il maggior numero possibile di vite, e restituire dignità a tutti, senza discriminazioni e senza assoggettarsi ad interessi politici, economici, religiosi  o strategici. O almeno ci provano seriamente.
Purtroppo, ci sono altre migliaia di istituzioni, organizzazioni internazionali, governi, forze armate, politici e movimenti, che tentano di sfruttare l’aiuto umanitario in funzione di risultati di altra natura: popolarità, forza elettorale, obiettivi strategici, successi politici, egemonie culturali, vantaggi commerciali. Quando questo succede a vantaggio di qualcuno, l’aiuto umanitario viene percepito come una minaccia da qualcun altro, e quest’ultimo tenterà di bloccarlo, combatterlo, impedirlo. A danno dei soliti poveri disgraziati che lottano per la sopravvivenza in tante parti del mondo.

L’azione umanitaria ha una funzione fondamentale e deve potersi svolgere in un’area di rispetto dove l’unico valore sia quello di salvare un pezzo di umanità. Usarlo per altri motivi produce effetti nefasti per le vittime di guerre e catastrofi: l’aiuto viene impedito in certi posti e indirizzato dove più conviene, alcuni lo riceveranno e altri no, gli operatori umanitari vengono visti come nemici da partiti politici e milizie etniche, che già ogni anno ne uccidono a decine. In molti posti, i convogli vengono bloccati e il cibo lasciato marcire, e la competizione per le poche risorse scatena la violenza tra i profughi. Altre popolazioni vengono dimenticate nelle tendopoli per decenni.
Freedom Flotilla ha sfruttato la causa umanitaria per un fine politico. Una causa nobile e condivisibile, che non aveva bisogno di travestirsi da azione umanitaria. Facendolo, ha reso più difficile la vita e l’azione degli umanitari veri. Da domani, fare assistenza in Palestina sarà ancora più difficile. Le organizzazioni verranno sottoposte a restrizioni di tutti i tipi, i visti per i cooperanti saranno limitati, le ritorsioni si moltiplicheranno. Il checkpoint per Gaza sarà chiuso sempre più spesso. Gli israeliani guarderanno con maggiore ostilità gli umanitari, i settlers lanceranno pietre, qualcuno sputerà al passaggio di un convoglio bianco. Molto più di adesso. La vita dei Palestinesi sarà più difficile. E un successo politico non attenuerà il peso delle conseguenze, sulla vita quotidiana degli abitanti di Gaza e della West Bank.

Fonte: Lettera22

di Gianni Rufini, docente di aiuto umanitario all'Università di York

9 giugno 2010

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