Finchè c’è guerra, ci sono affari


Carmine Gazzanini - espresso.repubblica.it


In crescita il business italiano delle armi. Nel 2014 +23 per cento. Vendiamo a tutti: Russia, Cina e paesi arabi.


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Temevano la crisi, poi tra i conflitti caldi del Medio Oriente, la nuova guerra fredda in Europa e le tensioni asiatiche, il business è tornato a splendere. Facendo guadagnare le tante aziende italiane – Finmeccanica in testa – che investono in questo settore e che possono contare su una minore incisività dei controlli governativi che, da oltre un anno, si sono fatti più blandi e meno trasparenti, come denunciano le tante associazioni impegnate nell’opera di disarmo. Un grande affare con un ruolo centrale è giocato anche dalle banche che finanziano l'export bellico. È questo il quadro che emerge dalla corposa relazione presentata ieri alla Camera “sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” relative al 2014.


UN 2014 D’ORO PER IL MERCATO DELLE ARMI
Per capire di cosa stiamo parlando, partiamo da un dato: “Il valore globale delle licenze di esportazione definitiva – scrive il ministero degli Esteri nella relazione – è stato di 2 miliardi e 650 milioni di euro”. È un sostanzioso incremento rispetto all’anno precedente, durante il quale ci si era “fermati” a 2 miliardi 149 milioni di euro. Il mercato, insomma, dopo un 2013 in flessione, ha ripreso a camminare con ritmi vertiginosi, facendo registrare un incremento del valore globale delle esportazioni del 23,3 per cento, per un totale di 1.879 contratti autorizzati contro i 1.396 dell’anno precedente.

 

Un bel salto, soprattutto nell’ambito dell’aeronautica, dell’elicotteristica dell’elettronica per la difesa (avionica, radar, comunicazioni, apparati di guerra elettronica) e dei sistemi d’arma (missili, artiglierie). E, ovviamente, a fare la parte del leone, non poteva che essere il gruppo Finmeccanica. L’azienda che ha ottenuto il maggior numero di autorizzazioni all’esportazione è la controllata Agusta Westland (il 22,3 per cento del totale) per un valore complessivo di quasi 590 milioni di euro. A seguire l’altra controllata di punta, Alenia Aermacchi, con il 21 per cento delle autorizzazioni e un guadagno di 563 milioni. Senza dimenticare Selex Electronic Systems, società ancora del gruppo Finmeccanica, che ha collezionato il 12,6 per cento delle autorizzazioni per un valore di 340 milioni di euro.

Questo dato non va letto isolato. Qui, infatti, parliamo soltanto dei contratti conclusi e siglati durante l’anno appena trascorso. Quante armi, invece, sono concretamente uscite dal nostro Paese per approdare in quelli esteri? A rivelarlo è l’Agenzia delle Dogane secondo cui le esportazioni definitive e realmente avvenute durante l’anno sono pari a 2.386 per un valore economico di 3 miliardi 329 milioni di euro. L’anno precedente – anche in questo caso – ci si era “accontentati” di 2,75 miliardi.

I CLIENTI: DAL REGNO UNITO AGLI EMIRATI
Nella lunga trafila dei “clienti” troviamo un po’ di tutto, tanto che si potrebbe stilare una precisa classifica dei Paesi esteri che fanno affari con le industrie belliche italiane. A cominciare dal Regno Unito, destinatario di 313 autorizzazioni per un valore complessivo di 305 milioni di euro. Non sono da meno gli Emirati Arabi che spendono in armi italiane 304 milioni, nonostante le autorizzazioni siano solo 33: il segno che si tratta di contratti hitech ad alto valore. Il mercato è in evidente espansione, rispetto al 2013: si fanno affari soprattutto in Europa e, più in generale, nei Paesi Nato (1.316 autorizzazioni totali, per un valore complessivo di 1 miliardo 475 milioni): principali partner, oltre al Regno Unito, sono Polonia (11,3%), Germania (7,4%) e Stati Uniti d’America (7,2%).

Ovviamente, non si disprezza il mercato intercontinentale. E così fioccano, oltre agli Emirati, accordi commerciali anche con l’Arabia Saudita (64 autorizzazioni totali per un valore di 164 milioni), l’Oman (34 autorizzazioni per 140 milioni) ed il Perù (3 autorizzazioni da 87 milioni).

Il punto, però, è soprattutto un altro. Come sottolineato dalle associazioni impegnate nella battaglia civile per il disarmo, tra i tanti acquirenti spuntano anche Paesi che vivono situazioni di instabilità politica o in cui non vige il pieno rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. E qui il paradosso: nonostante nella relazione venga precisato che “il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ha disposto il blocco di forniture verso quei Paesi la cui situazione politica interna non offriva adeguate garanzie sul piano della stabilità e della tutela dei diritti umani”, nella lista degli acquirenti troviamo anche Paesi ancora instabili politicamente come l’Egitto (che ha speso 31 milioni), o Paesi dove vige la pena di morte come il Pakistan (15,8 milioni), la Cina o gli stessi Emirati. Senza dimenticare i “fratelli in guerra”, Russia (autorizzazioni per 4,4 milioni) e Ucraina (6,3).

LE BANCHE ARMATE
Insomma, pecunia non olet. Ed ecco, allora, che a fare affari, oltreché l’industria bellica, sono anche le grandi banche italiane che mettono a disposizione i conti correnti per il denaro che le grandi aziende armate incassano vendendo i loro prodotti all'estero. Dalla relazione, nella parte di cui si occupa il ministero dell’Economia, emerge che nel 2014 sono state 44 le banche accreditate per la trasmissione delle segnalazioni – pari a 8.743 – per un importo complessivo di 2.511.997.250 euro. E se la voce grossa, nel giro incredibile di soldi, la fa la Deutsche Bank per oltre 831 milioni di euro (ma stesso dicasi per la francese Bnp Paribas o per l’inglese Barclays), non sono da meno le italiane Unicredit (circa 140 milioni) e il Banco di Brescia (gruppo Ubi Banca) sui cui conti sono transitati oltre 114 milioni di euro “bellici”. Né sono da meno le banche popolari, come quella dell’Emilia Romagna che ha permesso, nel 2014, un giro di soldi di oltre 27 milioni.

Sulla questione è da oltre un anno che diverse associazioni, a cominciare da Rete per il disarmo, interviene in maniera dura. Il motivo va rintracciato nella modifica dell’articolo 27 della legge 185 del 1990 che disciplina, appunto, il controllo sui trasferimenti bancari legati a operazioni in tema di armamenti. Dopo l’emanazione di un decreto legislativo (il numero 105 del 22 giugno 2012) da parte del governo Berlusconi e il seguente decreto legge emanato poi dal governo Monti, infatti, oggi gli istituti di credito non sono più obbligati a chiedere l’autorizzazione ex ante al ministero dell’Economia. Nell’epoca dell’informatizzazione, tutto è reso più semplice: ora basta una semplice comunicazione via web delle transazioni effettuate. E il gioco è fatto: la verifica avviene a transazione ormai effettuata. Ma così – sottolineano le associazioni – “il rischio è di allentare e di parecchio i controlli. E a risponderne è la trasparenza, sempre meno garantita in un settore assai delicato”.

ISTITUZIONI IN RITARDO
Ma non è questa l’unica negligenza imputabile alla politica, presente e passata. Il decreto legislativo 105 infatti – lamentano le associazioni – ha stabilito che il Presidente del Consiglio non sia più tenuto a riferire in Parlamento. Gli basta inviare una relazione “entro il 31 marzo di ciascun anno”. Tempi rispettati, dunque, dato che la relazione è stata trasmessa il 30 marzo (anche se, come detto, è stata pubblicata solo ieri). Ma attenzione: la legge è chiara a riguardo. Si dispone, infatti, “l’obbligo governativo di riferire analiticamente alle Commissioni parlamentari circa i contenuti della relazione entro 30 giorni dalla sua trasmissione”.

Finalmente, commenta a riguardo Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo, “quest’anno è stata fatta un’analisi nelle commissioni, dopo che per ben otto anni il Parlamento non ha mai nemmeno letto la relazione. Grazie ad una serie di pressioni, invece, quest’anno gli obblighi di legge sono stati rispettati e se n’è parlato”. Anche se – è bene precisare – tutto è stato condensato in una sola seduta. Ma comunque determinante “anche perché, se si leggono le relazioni introduttive dei relatori di maggioranza, entrambi certificano nero su bianco che la relazione è totalmente monca e poco trasparente. Un’ammissione importante, che rivela come le nostre critiche non siano infondate o di parte: è la maggioranza parlamentare stessa che lo ha ammesso”. Basta d’altronde prendere in mano la documentazione per accorgersene: “Presenta dei buchi, è troppo elefantiaca e non dà le informazioni in maniera leggibile”. Senza dimenticare, continua Vignarca, che “parliamo di una relazione presentata dopo un anno. Diventa praticamente archeologia più che attualità”.

 

Fonte: http://espresso.repubblica.it

9 giugno 2015

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