Egitto, la rabbia di Tahrir contro i militari
Michele Giorgio - Near Neast News Agency
Il passato continua a gravare sul paese, teatro di una rivolta che ha fatto cadere il «faraone» Mubarak, ma che ha solo scalfito la struttura del regime.
«Chiediamo le dimissioni del ministro dell’interno el Issawi, il rilascio di tutti gli arrestati e l’apertura immediata di un’inchiesta». Sono queste le richieste presentate al governo e ai militari al potere da 25 formazioni politiche egiziane dopo la repressione durissima compiuta dalla polizia delle proteste di migliaia di giovani, cominciate martedì sera durante una conferenza in un teatro di Agouza e davanti alla televisione di stato e proseguite fino a ieri pomeriggio in Piazza Tahrir e davanti al ministero dell’interno. I feriti sono oltre mille e tra questi un centinaio sono stati ricoverati in ospedale. Sono state le ore più difficili per l’Egitto dalla cacciata dell’ex rais Hosni Mubarak lo scorso 11 febbraio. Il passato continua a gravare sul paese, teatro di una ribellione che ha fatto cadere il «faraone del terzo millennio» rimasto per trent’anni al potere ma che ha solo scalfito la struttura del regime.
Ieri sera una calma carica di tensione regnava in Piazza Tahrir. L’accaduto ha inviato un segnale molto preoccupante al paese che si prepara ad entrare nella campagna elettorale vera e propria in vista delle legislative di fine settembre. La polizia ha trasformato in una battaglia la denuncia pubblica di migliaia di egiziani per il ritardo nell’apertura dei processi nei confronti degli esponenti del regime di Mubarak e dei comandanti della polizia responsabili del massacro di centinaia di manifestanti tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. In strada ormai i giovani dimostranti, almeno quelli che fanno riferimenti ai movimenti laici, non scandiscono più «Il popolo vuole la caduta del regime», lo slogan della rivoluzione, ma «Il popolo vuole le dimissioni di Tantawi», ossia del generale a capo del Consiglio supremo delle Forze Armate che dallo scorso 11 febbraio controlla il paese. Ma i militari si sentono forti. All’estero godono del pieno sostegno degli Stati Uniti, già grandi alleati di Mubarak, e in casa hanno dalla loro parte i partiti islamisti, Fratelli Musulmani in testa, che ieri si sono guardati dal condannare la brutalità della polizia contro i manifestanti.
Chi crede ancora in un nuovo Egitto perciò ieri si è precipitato in Piazza Tahrir. Lo hanno fatto tre candidati alle presidenziali: Hamidine Sabahi, del partito Karama, l’ex giornalista televisivo Bossayana Kamell e il medico Abdel Moneim Aboul Foutouh, espulso dai Fratelli musulmani per la decisione di correre per la poltrona di presidente e per aver pubblicamente riconosciuto il diritto alla conversione religiosa. Aboul Foutouh ha criticato le forze di sicurezza per la violenza «spropositata» contro le famiglie dei martiri della rivoluzione aggradite dalla polizia. Un altro candidato alla presidenza, Mohamed ElBaradei, ha denunciato su twitter le «violenze contro i manifestanti» mentre il movimento 6 Aprile, fra i primi promotori della rivolta anti-Mubarak, ha fatto appello, sulla sua pagina Facebook, ad un sit in permanente di protesta contro l’uso della forza da parte della polizia. Wael Ghonein, il più noto dei cyberattivisti, ha ricordato sulla sua pagina Facebook che oggi è atteso il verdetto nel processo per la morte di Khaled Said, il giovane di Alessandria pestato a morte un anno fa dalla polizia e la cui figura ha ispirato la rivoluzione di gennaio. Una manifestazione di solidarietà con gli attivisti di piazza Tahrir si è svolta in Midan Isaaf, a Suez, città dove cadde il primo martire della rivoluzione.
«Con questi scontri si tenta di diffondere il caos in Egitto…sono in attesa dei risultati dell’inchiesta per stabilire le responsabilità per quanto è avvenuto», ha dichiarato il premier Essam Sharaf. Ma la sua credibilità è in forte dubbio. Tanti egiziani non gli credono più. E suona ormai come un ritornello di una canzone l’accusa che governo e militari rivolgono tutte le volte «ad elementi del passato regime» che, dicono, intenderebbero scatenare il caos. «Sono invenzioni, è ora di dirlo con estrema chiarezza» ha detto al manifesto Nabil Abdul Fattah, uno degli analisti politici più noti. «Le autorità denunciano teppisti e criminali ma la verità è che le forze di sicurezza non sono cambiate, i comandanti e gli agenti della polizia sono gli stessi, poco o nulla è mutato ai vertici del potere, il regime è lo stesso e vuole consolidarsi, anche con la repressione».
Fonte: il Manifesto
30 giugno 2011