Editoria: le riforme non si possono fare sulle macerie


Roberto Natale, Giunta Federazione Nazionale Stampa Italiana


"Non si può pensare che il regolamento entri in vigore con effetto immediato, senza prima rimuovere le conseguenze devastanti che sta producendo il decreto Tremonti, diventato legge agli inizi di agosto".


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Editoria: le riforme non si possono fare sulle macerie

Le riforme non si possono fare sulle macerie. E’ bene ricordarlo, in un quadro dell’informazione in cui si infittiscono i segnali di una crisi devastante, di cui i 25 licenziamenti annunciati a “La7” e la ristrutturazione che investirà “Liberazione” rischiano di essere solo il prologo. Ed è bene tenerlo a mente soprattutto ora che il governo ha presentato un’ipotesi di nuova regolamentazione dei contributi all’editoria con la dichiarata ambizione di introdurre rigore e trasparenza.
Il sindacato dei giornalisti reclama da anni la revisione dei criteri in vigore, che hanno talvolta premiato iniziative finte e clientelari e così hanno gettato ombre sull’intero meccanismo di erogazione: generando un clima di qualunquistica e indistinta condanna di ogni finanziamento pubblico, nel quale ha preso corpo la proposta di Beppe Grillo di cancellare per via referendaria qualsiasi sostegno all’informazione. Noi giornalisti abbiamo chiesto invece che si distingua chiaramente tra i giornali veri e le truffe. Ed abbiamo perciò riconosciuto qualche merito alla bozza di regolamento che Paolo Bonaiuti e Mauro Masi hanno presentato il 17 settembre alle rappresentanze organizzate degli editori e dei professionisti del settore: bene le norme contro le cooperative fasulle, la cancellazione della possibilità di vendite in blocco (stratagemma per gonfiare artificialmente le cifre della diffusione), il proposito di metter mano ad un costosissimo monopolio postale, il passaggio dalle copie tirate alle copie effettivamente distribuite come criterio per l’erogazione dei fondi (anche se va abbassata la percentuale di vendite ritenuta indispensabile per accedere al contributo: per alcuni giornali di partito – giornali veri, beninteso – la soglia è comunque troppo elevata). E poi ancora ci sono misure utili a tutelare il lavoro nel settore editoriale: per ricevere denaro pubblico l’azienda dovrà dimostrare tra l’altro di avere sotto contratto a tempo indeterminato alcuni giornalisti e poligrafici e di fare ricorso minimo ai services. Il sindacato invierà i suoi emendamenti al testo (da rivedere anche la norma che permettere di cumulare il contributo ad una buona raccolta pubblicitaria), ma esso può costituire una base accettabile di discussione per la riforma futura.
Però c’è un ostacolo su questa strada, ed è un ostacolo enorme. Non si può pensare che il regolamento entri in vigore con effetto immediato, senza prima rimuovere le conseguenze devastanti che sta producendo il decreto Tremonti, diventato legge agli inizi di agosto. Lì il governo è intervenuto con la scure, sostanzialmente azzerando i contributi diretti all’editoria di partito, cooperativa, no profit, che fino ad oggi avevano fornito un apporto certo a bilanci per lo più magri. Una mossa che “liscia il pelo” all’antipolitica corrente, individuando nella stampa di opinione il luogo degli sprechi più censurabili, e salva invece i contributi indiretti, quelli delle compensazioni postali che vanno soprattutto ai grandi gruppi, magari quotati in Borsa (in testa alla classifica c’è la Mondadori, con quasi 19 milioni di euro di rimborsi, seguita dal Sole con 18 e da Rcs con 14). Quel colpo avrà effetti letali, se non verrà corretto dal Parlamento nelle prossime settimane: non solo sul “Manifesto”, che con più forza ha alzato la voce, ma sulle altre cooperative, sugli organi di partito – tutti, di destra e di sinistra, dal Secolo a Liberazione – e su quella rete di testate quotidiane e periodiche, dei più diversi orientamenti ideali, che già oggi vivono con difficoltà ai margini del mercato. Un mercato che in Italia non ha nulla della leale competizione fra pari, gravato com’è dall’annoso squilibrio fra emittenza e carta stampata nella raccolta pubblicitaria e dai cento conflitti di interesse grandi e piccoli di una editoria quasi mai “pura”.
Il sindacato dei giornalisti è molto interessato alla riforma che potrà venire, ma non al prezzo di chiudere gli occhi sull’eliminazione di tante voci nel presente. Il sottosegretario Bonaiuti ha ripetuto, in questi mesi, che intorno alla riforma dell’editoria auspica la rinascita di quel clima di collaborazione costruttiva fra tutti i soggetti interessati – istituzionali, politici e professionali – che portò nell’81 al primo grande intervento legislativo in materia. E’ una buona intenzione, ma perché si tramuti in realtà è indispensabile correggere radicalmente gli interventi di Tremonti e spostare in avanti almeno di un anno l’entrata in vigore del regolamento; altrimenti ogni discussione sulla riforma sarebbe una beffa ai danni di chi ha dovuto chiudere per i tagli. Da parte sua la Federazione della Stampa farà tutto il possibile, in queste settimane, per dare voce comune alle testate colpite dal decreto. Non intendiamo rassegnarci all’idea che abbia diritto di parola solo chi ha grandi capitali alle spalle. Una riforma equa non può nascere dall’ulteriore impoverimento del pluralismo italiano.

Fonte: Articolo21

29 settembre 2008

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