Don Ciotti: “Basta solidarietà, è tempo di garantire diritti”
Gruppo Abele
Dopo i tagli, a Torino il convegno del Gruppo Abele: E’ ancora pensabile un futuro per il lavoro sociale?
Le idee per non arrendersi a un tempo di scarsità.
Meno solidarietà, più diritti. È questa la richiesta fatta alla politica dagli operatori sociali dell’ente pubblico e del terzo settore, che si sono riuniti per una due giorni di riflessione e confronto a Torino, su iniziativa della rivista del Gruppo Abele “Animazione Sociale”. I tagli degli ultimi anni al Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS) stanno costringendo alla chiusura molti servizi locali, quelli più vicini ai cittadini, con operatori che attendono da mesi gli stipendi eppure continuano a lottare per costruire diritti e condizioni di vita più dignitose per le persone più povere e fragili. «Dal 2008 a oggi – ha affermato don Luigi Ciotti, aprendo la prima giornata di lavori – i fondi per le politiche sociali hanno subito un calo di quasi l’80%: significa due miliardi di euro in meno da destinare ai progetti e ai servizi per le fasce deboli. Si risparmia sui servizi alle persone e si lasciano intatte le prestazioni monetarie, come le indennità di accompagnamento o le pensioni sociali, misure poco efficienti e a carattere principalmente assistenziale, ma facilmente sfruttabili a livello comunicativo per creare consenso politico».
Di fronte all’incertezza economica e alla mancanza di una “regia” politica nella gestione del welfare, tornano ad affacciarsi modalità di intervento “tampone”: «Manca la capacità – ha proseguito il fondatore del Gruppo Abele – o meglio la volontà, di affrontare la complessità dei problemi in un’ottica di lungo periodo, costruendo delle risposte solide, durevoli. E di costruirle insieme, creando reti di competenze e di risorse».
“Fare rete” è una delle strategie messe in atto dalle realtà che lavorano in ambito sociale per ovviare alla mancanza di risorse economiche. Ma nello sforzo di non “lasciare indietro” nessuna delle persone che si rivolgono ai servizi, oggi si corre il rischio di proporre un concetto di solidarietà “snaturato”, che supplisce con la “beneficenza” ciò che dovrebbe essere un “diritto”: «In questa deriva – prosegue don Ciotti – si chiede spesso alla solidarietà di sostituirsi alla politica. Di occuparsi di ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie sociali. È così che, col tempo, molte associazioni si sono ritrovate ad essere “delegate alla solidarietà”. Ma una solidarietà che accetta di operare nel vuoto dei diritti finisce per coprire o giustificare quel vuoto. Si limita a occuparsi dell’esclusione, senza rimuoverne le cause sociali e politiche».
A ribadire la necessità di una maggiore giustizia sociale è stata anche Chiara Saraceno, durante il suo intervento al convegno: «Il modello della carità è da respingere – ha affermato – carità è una parola che mi indigna: come cittadini dobbiamo pretendere giustizia, equità, uguaglianza».
Un’uguaglianza che appare oggi un miraggio, come dimostrano i dati dell’ultimo rapporto Istat: «Emergono oggi disuguaglianze che non sono soltanto economiche, ma ledono la possibilità di vedersi riconoscere il diritto ad una vita dignitosa e la libertà di sviluppare le proprie capacità. L’indagine Istat ha fatto emergere con forza un acuirsi della distanza tra ricchi e poveri e tra chi può contare su una rete di sostegno informale, per lo più famigliare, e chi non può farlo». Un sostegno, quello delle famiglie, che riguarda i disoccupati, ma anche le mamme lavoratrici e gli anziani non autosufficienti: in Italia, oggi, ci sono 2 milioni di over 65 che non sono in grado di gestirsi da soli e non possono contare su nessuno.
Secondo la sociologa scaricare sulle famiglie i compiti di cura, assistenza ed educazione non è sostenibile, anche perché costringe le persone, le donne in particolare, a uscire dal mercato del lavoro per dedicarsi alla cura familiare.
Chiara Saraceno ha posto l’accento anche sulle altre disparità che interessano l’Italia di oggi: «Quelle tra cittadini autoctoni e cittadini immigrati, ad esempio, perché non si può pensare di destinare ai bambini figli di immigrati le stesse risorse riservate ai bambini nati in Italia. Ci sono poi le disuguaglianze tra territori: il Sud Italia non solo ha perso più occupazione del Nord ed ha un welfare più debole, ma anche le reti di aiuto informali sono più deboli».
Cosa fare allora? «Oggi – ha concluso don Ciotti – prevale la logica della distribuzione, che considera tutti alla pari. Ma, come ricordava don Milani, non c’è nulla di più ingiusto che dividere parti eguali tra persone diseguali, ecco perché servono politiche di redistribuzione del reddito, che assegnino le risorse tenendo conto dei reali bisogni della gente, così da ridurre le disuguaglianze».
Fonte: Gruppo Abele
27 maggio 2011