Diario afgano: tra propganda e cardamomo


Giuliano Battiston


In ogni guerra la risorsa più importante, quella da cui tutto dipende perchè da essa dipende la costruzione del consenso, è l’informazione.


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Bombe che “piovono come polline”. Odore di cardamomo a ogni angolo di strada. Secondo un recente articolo uscito sul settimanale Panorama, sarebbero questi i “segni particolari” di Kabul. Vengo regolarmente in Afghanistan dal 2008 (un novizio, rispetto ad altri), quando per la prima volta ho attraversato via terra il confine che separa Iran e Afghanistan, da allora ho passato molto tempo nel paese (l’anno scorso 4 mesi), ma ancora non mi ero accorto dell’odore di cardamomo. A volerla dire tutta, girando per i quartieri di questo conglomerato urbano di almeno 3 milioni di abitanti, tirato su senza pianificazione, sventrato in passato dai muhajeddin che combattevano una sanguinosa guerra intestina e oggi da palazzinari più inquietanti dei nostri, l’odore dominante è quello di fogna. Un caratteristico, insistente, pervasivo odore di fogna a cielo aperto.

Vale per Deh Afghanan, il quartiere popolare dove risiedo, a pochi passi dal bazar centrale e dalla moschea dell’“emiro di ferro” Abdur Rahman. Vale per Qala-e-Fatullah, il quartiere residenziale preferito dagli “expat”, gli espatriati che lavorano per le organizzazioni non governative e che si rilassano nel giardino del ristorante Sufi o del Flower Street Cafè, dove l’inglese-americano è la lingua più parlata. Vale per Macrorayon, il popoloso quartiere nord-occidentale costruito dai sovietici quando cercavano di imporre l’occupazione comunista a colpi di mortaio e di edilizia. E vale per ogni altro quartiere di Kabul.

Quanto alla pioggia di bombe, non ho mai visto cadere una bomba in città, né tanto meno una pioggia di bombe. Forse neanche “Voice of Jihad”, il sito dell’Emirato islamico d’Afghanistan, riconducibile alla Shura (il consiglio) di Quetta del mullah Omar, si azzarderebbe a minacciare o rivendicare una cosa simile. Nonostante che i suoi efficientissimi gestori registrino puntualmente, ogni giorno e più volte al giorno, in cinque diverse lingue (farsi, urdu, arabo, pashto e inglese) gli attacchi compiuti contro gli “invasori infedeli”, cioè noi.

Che i Talebani abbiano compreso da tempo che il fronte elettronico-digitale è parte integrante e fondamentale della guerra afghana lo spiega bene lo studioso Antonio Giustozzi nell’ormai classico Koran, Kalashnikov and Laptop. Ma basta navigare qualche minuto su “Voice of Jihad” per rendersene conto. È un’esperienza sempre istruttiva. Sul sito dei Talebani ci sono comunicati ufficiali che provengono dall’altro lato del confine, perlopiù dalla “capitale” politica dei Talebani, Quetta, meno da quella strategico-militare, Peshawar, entrambe in Pakistan. Sono i testi che danno la linea, che segnalano agli osservatori esterni come sia orientata la leadership politica del movimento, che confermano i rumors (come il recente viaggio in Iran di una delegazione talebana) o negano l’indifendibile (come l’attacco avvenuto pochi giorni fa a Jalalabad alla sede della Croce rossa internazionale, finora risparmiata).

Sul sito, ci sono poi interviste formidabili ai comandanti locali. Cose che suonano più o meno così: “oggi abbiamo l’onore di intervistare il vice-comandante delle operazioni nella provincia del Badakhshan, l’eroico malawi Abdul Ghani Faiq. Come procedono le operazioni nel Badakhshan, comandante?”, chiede l’intervistatore: “Ottimamente, abbiamo inferto un duro colpo agli invasori infedeli. Inoltre, abbiamo colpito i soldati-fantoccio dell’esercito afghano. E tutta la popolazione ci sostiene”. Alle interviste, si accompagna una puntuale registrazione delle attività degli “insorti”. Eccovi qualche esempio: “10.06. Check-post come under attack in Maiwand”; “10.06. 2 IEDs detonate on dismounted enemy” (IED sta per Improvised Explosive Devices, ordigni artigianali, l’arma preferita dai movimenti antigovernativi afghani, facili da piazzare e micidiali); “10.06. IED attack eliminates vehicle and 4 puppets” (i puppets in questione sono i soldati afghani, considerati fantocci dai Talebani perché rispondono al governo Karzai, fantoccio degli americani); “10.06. Martyrdom seekers storm Qalat provincial council building” (qui gli aspiranti martiri – va da sé – sono prevalentemente giovani ignoranti, convinti della bontà del jihad contro gli stranieri, imbottiti di esplosivo e mandati a morte certa). Tutto questo per dare un esempio della capillarità delle informazioni raccolte e diffuse da “Voice of Jihad”.

Ma qual è il punto? Il punto è che ci stupiamo se a produrre informazione sul web sono dei guerriglieri senza divisa, che immaginiamo con la barba lunga e ispida (molti ce l’hanno), analfabeti (molti lo sono), con indosso tuniche sporche e sandali mal ricuciti (come quelli visti ai piedi di un talebano ucciso dai militari afghani, l’anno scorso qui a Kabul). Eppure non ci stupiamo affatto se a fare comunicazione sono gli eserciti che partecipano alla missione Isaf della Nato. Anzi, a dirla tutta, la prima ci sembra ignobile propaganda, la seconda una virtuosa attività di comunicazione. Qualche giorno fa a Bruxelles c’è stata un’importante riunione interministeriale della Nato, a cui hanno partecipato 50 ministri della Difesa, provenienti dai 28 paesi membri della Nato e dai 22 paesi “non-Nato” che attualmente contribuiscono alla missione “Isaf” in Afghanistan.

Al termine, come al solito, c’è stata la conferenza stampa del segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che ha risposto alle domande dei giornalisti. Ho letto la trascrizione delle sue risposte, e non vedo molta differenza con quelle del vice-comandante del Badakhshan su “Voice of Jihad”. Non teme che il ritiro delle truppe straniere nel 2014 rischi di far precipitare il paese nella guerra civile?, hanno chiesto i giornalisti a Rasmussen: “ho piena fiducia nella capacità dell’esercito afghano…”, ha risposto sicuro; “non teme che le elezioni presidenziali del 2014 saranno segnate da frodi come in passato”?, “ho piena fiducia nella capacità del governo afghano di garantire elezioni libere e trasparenti”; “non teme che…?”, “ho piena fiducia che…”, ha replicato Rasmussen a tutte le domande con formula automatica e rituale. Intendo forse dire che tra il mullah Omar e Anders Fogh Rasmussen non c’è differenza? No. Voglio dire che diffido degli uffici stampa dei “nostri” eserciti quanto di quelli dei barbuti. Perché? Perché metodi e strumenti sono diversi, ma lo scopo è sempre lo stesso, che a inviare comunicati e dispacci siano i Talebani barbuti con la barba ispida o gli addetti alla comunicazione della Nato con eloquio sicuro, viso sbarbato e fare rassicurante: convincere il pubblico che stiamo vincendo la guerra, che il nemico è sconfitto, che la vittoria è vicina.

D’altronde, la questione è semplice. Gli eserciti che devono fare? Vincere le guerre. E come si vincono le guerre? Non solo con le armi, ma sempre di più con la comunicazione, con le percezioni, con il consenso. E il consenso va costruito, passo dopo passo; le percezioni modellate, comunicato stampa dopo comunicato stampa, conferenza stampa dopo conferenza stampa. A colpi di propaganda, come si diceva una volta. Niente di nuovo sotto il cielo, direte giustamente voi. Walter Lippmann (consigliere della delegazione americana e del presidente Wilson alla Conferenza di pace di Parigi e capitano addetto alla propaganda nel corpo di spedizione), nel 1922 pubblica Public Opinion (L’opinione pubblica, Donzelli 2002), un testo ancora importante, in cui parla proprio di “manufacture of consent” (fabbricazione del consenso). La lezione, da allora, è sempre la stessa: in ogni guerra la risorsa più importante, quella da cui tutto dipende perché da essa dipende la costruzione del consenso, è l’informazione. Produrla, confezionarla, orientarla, ottenerla, gestirla, negarla o nasconderla rientra nei compiti di tutti gli attori di un conflitto. Ai giornalisti spetta di verificarla, si dice di solito, e di mettere in questione l’informazione prodotta e veicolata dagli attori in conflitto. Questo è il primo punto.

Il secondo è che in un contesto come quello afghano, ai giornalisti che non vogliano limitarsi a fare gli embedded – giornalismo parassitario, in osmosi con il potere, viziato in partenza – spetta un compito ulteriore: evitare quello che gli accademici più avvertiti definiscono “conflict fetish”, l’idea – feticistica appunto – che l’unica lente attraverso la quale è possibile guardare un paese in conflitto sia quella della guerra, degli scontri. E qui torniamo al punto di partenza. Torniamo all’articolo pubblicato su Panorama. Dove non si parla di guerra, ma delle meritorie attività di una giovane donna italiana che ha fondato una scuola gratuita per bambini afghani. Tutto bene, dunque? Scampato il pericolo “feticista”? No, niente affatto. A causa del modo in cui è raccontata la storia (“le bombe piovono come polline”; “le mani di Selene contro le mani assassine rosse di sangue dei vari Michael Adebolajo”; “solo una notte comprese che le lacrime di Kabul avessero il sapore di cardamomo”), e perché cade in un altro tipo di feticismo, che definirei “patriottico”.

Ci interessa l’Afghanistan solo quando l’Afghanistan parla di noi (soldati, cooperanti, ostaggi, etc). Non ci interessa, invece, quando parla di chi in Afghanistan ci vive. Gli afghani. Ne avete notizia, voi? Che fine hanno fatto? Una risposta la prova a dare Valerio Pellizzari, già inviato del Messaggero e ottimo conoscitore dell’Afghanistan, nel recente In battaglia. Quando l’uva è matura. Un libro convincente per molti aspetti. Soprattutto per la critica documentata e consapevole al “razzismo delle notizie”, quel razzismo che divide gli afghani in due grandi categorie: terroristi-Talebani, oppure vittime (ospedali e carceri sembrano essere gli unici posti frequentati dagli afghani). Quel giornalismo immaginifico che fa piovere bombe al cardamomo su Kabul.

Fonte: www.lettera22.it
21 giugno 2013

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