Dal Mediterraneo: cos’è successo al confine con la Libia
Ottavia Spaggiari - vita.it
Tra codice di condotta, minacce e giro di vite sulle Ong. Ecco come sono state le ultime settimane a bordo di Seefuchs, il peschereccio dell’organizzazione tedesca Sea-Eye, specializzata in ricerca e soccorso, costretta a fermarsi a Malta, dopo le crescenti minacce da parte della Guardia Costiera libica
«Vedrai che si tratta di una cosa temporanea». Fino al 10 agosto, non aveva dubbi Sampo Widmann, il capitano dell’ultima missione di Seefuchs, il peschereccio dell’Ong tedesca Sea-Eye, da due anni impegnata in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Secondo lui, era solo questione di tempo, «le cose torneranno alla normalità, se mai sia davvero esistita una normalità in queste acque».
Mi dice queste parole mentre ormai navighiamo verso nord, dopo due stranissime settimane trascorse nel Mediterraneo, tra le 24 e le 30 miglia dalla costa libica. 73 anni, architetto, velista da quarant’anni, Widmann ha portato la sua barca dal Mare del Nord fino al Pacifico, passando per Panama. È uno, insomma, che di faccende di mare se ne intende, eppure, nemmeno lui aveva ragione di credere che nella porzione di Mediterraneo tra l’Italia e la Libia le cose sarebbero cambiate così in fretta.
Dopo il nostro ritorno, sarebbe dovuto ripartire subito, con un nuovo equipaggio, invece è ancora bloccato a Malta. «Stiamo aspettando nuove indicazioni, vedremo cosa succede».
Tutto nella nostra missione è andato come previsto. Le chiamate di coordinamento con l’IMRCC (Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo) di Roma e con le altre Ong, il rispetto del protocollo, l’incontro con una motovedetta di Tripoli, al ritorno da una delle operazioni di ricerca, che però non ci ha nemmeno degnato di uno sguardo. Le uniche cose stranissime: lo zelo della guardia costiera libica, intervenuta in due operazioni di soccorso su tre e i pochissimi avvistamenti di imbarcazioni in difficoltà, nonostante l’assenza di vento e l’acqua calma come quella di una laguna.
Il canale radio 16, quello per le emergenze, su cui le imbarcazioni di chi fa “search and rescue” sono perennemente sintonizzate, ha gracchiato per la maggior parte del tempo, attirando sul serio la nostra attenzione, solo in poche occasioni.
Gli occhi incollati al mare
A bordo di Seefuchs, un’imbarcazione spartana di 22 metri, non c’è wi-fi. Per comunicare con la terraferma ci sono solo la radio, il telefono satellitare (utilizzato per le chiamate più importanti, come quelle con l’IMRCC) e una lenta e costosa connessione internet, utilizzata per lo scambio di e-mail relative a logistica e sicurezza con i responsabili dell’organizzazione, in alcuni casi, con le altre Ong, e soprattutto per informare l’IMRCC degli spostamenti.
Nessuno di noi aveva modo di sapere quello che, a livello politico, si stava muovendo tra Tripoli e Roma. L’unica informazione chiarissima, arrivata dal quartier generale, in Germania, era stata quella sull’avvicinamento di C-Star, la “nave identitaria”. Il capitano però aveva rassicurato tutti: «andiamo avanti e continuiamo a fare il nostro lavoro, non c’è niente di cui avere paura». Persino del blocco della Iuventa abbiamo saputo solo via radio. «Sembra che li abbiano fermati a Lampedusa e non li facciano più partire», mi aveva raccontato chi aveva intercettato il messaggio, «non si capisce bene perché».
«Con il mare così calmo e una nave di soccorso in meno, avremo parecchio da fare», aveva commentato Uli, vigile del fuoco in Germania e volontario.
In effetti le chiamate iniziano ad arrivare. Tre in due giorni, in punti diversi del Mediterraneo, in acque internazionali, tra le 13 e le 30 miglia a largo della Libia. Prima un barcone con un centinaio di passeggeri, poi due gommoni pieni di gente, infine una piccola imbarcazione da pesca con a bordo appena tre uomini, che verranno poi ritrovati dall’Ong spagnola Proactiva Open Arms, a circa 100 miglia dalla costa libica.
Dopo ogni chiamata, le ore volano, concitate. Prima il coordinamento con l’IMRCC, poi con le altre Ong più vicine. Si prepara il gommone, si esce a cercare. Chi rimane sul ponte inforca i binocoli e per ore e ore non stacca gli occhi dalle lenti.
«È sempre così difficile la fase di ricerca?» Chiedo a Peter, 23 anni, dottorando in lettere classiche a Cambridge, già volontario a Lesbo, questa è la sua seconda missione nel Mediterraneo. Accenna il sorriso che si riserva a chi non sa nulla di come funzionano le cose. «No, di solito è dolorosamente evidente». Usa proprio quell’avverbio, “painfully”.
Eppure qui, in questo agosto, nel mezzo del Mediterraneo, di evidente non c’è nulla. Si continua a setacciare l’acqua, di giorno, sotto il sole bruciante, e di notte, quando un buio nerissimo ti fa perdere la speranza di riuscire a vedere qualsiasi cosa, fino a quando la voce del capitano non interrompe la ricerca e fa cadere il silenzio tra l’equipaggio.
«Potete smettere», dice. «È arrivata la comunicazione. L’imbarcazione è stata presa dalla Guardia costiera libica, li hanno riportati indietro». Una scena che avviene qualche ora dopo la prima chiamata e si ripete identica, il giorno seguente, quando Seefuchs è impegnata in un’operazione di search and rescue coordinata da Proactiva open arms. Arriviamo sul posto quando l’Ong spagnola ha appena finito l’operazione di trasbordo dei migranti dai gommoni alla propria nave.
In lontananza si vedono decine e decine di persone sul ponte. Ci sono bambini e donne incinte.
«Quello che mi hanno raccontato queste persone della Libia, non me lo scorderò mai più», mi dirà poi, una volta tornati a Malta, un giornalista spagnolo, che era a bordo dell’imbarcazione. «C’era questa signora all’ottavo mese. Aveva paura di aver perso il bambino. Le abbiamo fatto l’ecografia qui sulla nave, non ne aveva mai fatta una prima. Quando ha visto il battito, la faccia le si è trasformata dalla felicità».
Non tutti però sono stati raggiunti da Proactiva open arms. Le persone salvate parlano di un secondo gommone, disperso, che nessuno riesce a trovare. Sembra che qualcuno sull’altra imbarcazione abbia famigliari, amici.
Si riprende a cercare, il Rhib (Rigid Hull Inflatable Boat) viene rilanciato in acqua, si ritorna ai posti per l’avvistamento, ognuno ricomincia a sezionare con gli occhi la propria porzione di mare. Fino alla nuova comunicazione: «abbiamo ragione di pensare che il secondo gommone sia stato ripreso dalla Guardia costiera libica».
Di nuovo silenzio. Tutti a bordo di Seefuchs sanno cosa succede in Libia.
Le 30 miglia
Secondo alcuni volontari, dietro i pochi interventi e i nulla di fatto c’è il nodo delle 30 miglia. Alla faccia del codice di condotta e delle polemiche, Sea-Eye, che è anche una delle organizzazioni più piccole ad operare nel Mediterraneo, e proprio per questo tra quelle guardate con più sospetto nella campagna anti-ong degli ultimi mesi, ha infatti deciso di fissare il pattugliamento a 30 miglia dalla costa. Un limite che, secondo il protocollo dell’organizzazione, si può superare solo per missioni di soccorso, dopo essersi coordinati con l’IMRCC, a Roma e che va quindi ben oltre le 12 miglia delle acque territoriali, richieste tra l’altro anche dal codice di condotta, e persino più lontano dalle 24 miglia delle acque adiacenti.
Una misura di sicurezza a cui il board dell’Ong tiene moltissimo, decisa dopo quello che era successo a maggio a Sea Watch, altra organizzazione tedesca, che si era vista pesantemente minacciata dalla Guardia costiera libica (lo avevamo raccontato qui).
La prima sera, arrivati nella zona di ricerca e soccorso, ci eravamo spinti fino alle 24 miglia, ma dal quartier generale dell’organizzazione, in Germania, era arrivato subito il richiamo. Su Vessel finder i responsabili dell’Ong avevano controllato la nostra posizione, e richiesto che ci allontanassimo di altre 6 miglia. Un episodio che la dice lunga sulle accuse di spegnere i trasponder avanzate alle organizzazioni negli ultimi mesi. «I primi a volerli tenere accesi siamo noi. Sono fondamentali, per la nostra sicurezza», mi ha ripetuto diverse volte il capitano.
Per qualcuno però, 30 miglia sono troppe. Seefuchs percorre in media 8 miglia all’ora e rimanere a quella distanza, secondo diversi volontari, significa essere troppo lontani per arrivare tempestivamente, lasciando così i migranti in pericolo più a lungo e il campo libero alla Guardia costiera libica, anche in acque internazionali.
«Rispettare le regole è giustissimo, ma restando così lontani, diventa davvero difficile effettuare dei salvataggi», dice qualcuno dell’equipaggio, ricordando che la maggior parte delle imbarcazioni cariche di migranti non sono in condizioni di raggiungere quella distanza, molte non hanno nemmeno più i motori, requisiti dagli stessi trafficanti.
Chi in quelle acque c’è già stato, però, sa che il problema non è questo. «A giugno, nell’ultima missione, sempre con Sea-Eye, rimanevamo tra le 24 e le 30 miglia, eppure abbiamo avuto 4 operazioni di salvataggio e il meteo non era così favorevole», interviene Peter, durante una delle innumerevoli discussioni sul perché le imbarcazioni che partono dalla Libia siano così poche. Ormai è chiaro che tra Tripoli, Roma e Bruxelles, qualcosa di grosso deve essere successo davvero.
Le nostre domande trovano una risposta, almeno parziale solo quando ci troviamo a largo di Malta, i nostri telefoni riprendono il segnale wi-fi e iniziamo a leggere i titoli dei giornali.
Il blocco della Iuventa, le minacce della Guardia costiera libica all’equipaggio di Proactiva Open Arms, con cui avevamo collaborato appena pochi giorni prima, il lungo articolo del New York Times, dedicato al Ministro degli Interni Minniti, presentato come colui che potrebbe chiudere la rotta del Mediterraneo. E poi ancora, il crollo delle partenze dalla Libia, per molti ancora non del tutto chiarito.
Qualcuno scuote la testa. Ecco cos’è successo mentre eravamo in mare.
«L’Italia ha fatto tantissimo in questi ultimi anni ed è stata lasciata sola, non si poteva andare avanti così per sempre». È una frase che mi sento ripetere diverse volte dai volontari.
«Il problema è che a pagare sono sempre gli ultimi», mi dice Henry, 64 anni, ottico in pensione, alla sua seconda missione con Sea-Eye. «Che ci vuoi fare? Non possiamo controllare le politiche dei nostri governi, ma possiamo scegliere di essere qui».
Gli fa eco Uli: «Il lavoro di chi fa ricerca e soccorso è come quello dei vigili del fuoco. Tu sei pronto, ti prepari ma non sai se ci saranno incendi, molte volte il grosso del nostro ruolo è aspettare. Quello che conta però è esserci. Noi ci siamo stati, questo è sicuro».