Conto alla rovescia per Netanyahu


Janiki Cingoli


L’iniziale tentativo di Netanyahu di lasciare le cose nel vago, per non irritare il nuovo presidente USA, impegnandosi a formulare un piano di pace complessivo per la pace e la cooperazione in Medio Oriente, non ha retto a lungo…


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Conto alla rovescia per Netanyahu

L’iniziale tentativo di Netanyahu di lasciare le cose nel vago, per non irritare il nuovo presidente USA, impegnandosi a formulare un piano di pace complessivo per la pace e la cooperazione in Medio Oriente, continuare i negoziati di pace e onorare gli accordi internazionali già firmati, senza fare menzione della possibile creazione di uno Stato palestinese, ed i suoi ripetuti accenni ad una possibile via alternativa di costruzione di una “pace economica” con i palestinesi, non hanno retto a lungo. Si sono infranti dopo le dichiarazioni del suo nuovo Ministro degli Esteri, Lieberman, che ha dichiarato che Israele non si sente impegnato dagli accordi di Annapolis, che non sono mai stati ratificati né dalla Knesset né dal governo, ma solo dalla Road Map; che non c’è alcuna risoluzione del Governo rispetto alla Siria e che “Abbiamo detto non accetteremo di ritirarci dal Golan, la pace ci sarà solo ottenendo in cambio la pace”.

Infine, in risposta agli ultimi interventi di Obama, egli è arrivato a sostenere che gli enti esterni devono smettere di fare pressioni su Israele, che“non si è mai impicciato negli affari degli altri, e io mi aspetto lo stesso, che nessuno stia qui con un cronometro in mano”. Naturalmente, nessun accenno al programma di 30 miliardi di finanziamenti in dieci anni, previsti per l’esercito israeliano.

Con ogni probabilità, Lieberman dice ciò che Netanyahu pensa, ma il Premier israeliano ha passato troppo tempo a Washington, per non sapere bene che l’unica cosa che Israele non può permettersi è uno scontro prolungato con gli USA, come quello di Shamir con Bush padre, agli inizi degli anni ’90, quando Israele dovette far fronte al blocco delle garanzie su 10 miliardi di dollari, necessari per l’assorbimento degli ebrei russi, che finì con la vittoria di Rabin alle successive elezioni.

Egli si è quindi affrettato a dichiarare, dopo il discorso di Obama al Parlamento di Istanbul, di “aver apprezzato il suo impegno a garantire la sicurezza di Israele e a perseguire la pace”, e che il Governo di Israele è impegnato su entrambi questi obbiettivi, e formulerà le sue politiche nel prossimo futuro in modo da lavorare accanto agli Stati Uniti”.

Le prossime settimane saranno dunque dedicate alla definizione delle proposte del suo governo rispetto al processo di pace e alla iniziativa israeliana a livello regionale, ma i suoi spazi di manovra si sono certamente ristretti.

Obama aveva infatti ribadito che gli Stati Uniti ritengono strategicamente prioritaria la scelta di due Stati, l’uno israeliano e l’altro palestinese, che vivano l’uno al fianco dell’altro in pace e sicurezza.

“Questo obbiettivo – ha detto il Presidente USA – è stato concordato tra le parti nella Road Map e nella Conferenza di Annapolis, e questo è un obbiettivo che io intendo perseguire attivamente come Presidente”.

Un elemento di novità, nel suo intervento, è che pur dichiarando di appoggiare il tentativo di mediazione turco tra Siria e Israele,  non si è impegnato direttamente su questo, condizionando l’impegno USA allo sviluppo dei contatti della sua Amministrazione con Damasco, e soprattutto ribadendo che per Washington la prima priorità è il negoziato con i palestinesi.

Ai fini dell’obbiettivo strategico che Obama si prefigge, la costruzione di un nuovo rapporto con il mondo mussulmano, appare essenziale la soluzione del problema palestinese e l’allentamento dell’asse privilegiato con lo Stato ebraico, pur senza naturalmente rinnegare la solidarietà e l’alleanza e la solidarietà con esso.

Per questo, crescono le voci, riportate anche oggi dal quotidiano israeliano Ha’aretz, per cui lo staff di Obama si starebbe preparando allo show down, attraverso una serie di briefing preparatori con i parlamentari democratici, onde prepararli a uno sviluppo della iniziativa USA più deciso verso l’attuale Governo israeliano.

D’altronde, vi sono state nelle scorse settimane due annunci: una dichiarazione dell’inviato speciale in Medio Oriente, George Mitchell, secondo cui gli USA si apprestano a incorporare nella loro politica il Piano Arabo del 2002, che postula il riconoscimento di Israele da parte di tutti gli Stati arabi in cambio della restituzione dei territori occupati nel ’67 (con possibili limitati scambi di territori), della creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e di una soluzione “giusta e negoziata” del problema dei rifugiati.

Inoltre, vi è notizia di un piano proposto da 10 esperti appartenenti all’entourage di Obama, tra cui Paul Volcker, Brent Scowcroft, Zbigniew Brzezinski, Lee Hamilton, James Wolfensohn, che propone di allentare le tre condizioni poste dal Quartetto a Hamas, favorire la formazione di un Governo di unità interpalestinese, e rilanciare i negoziati sul Final Status, sulle seguenti linee: ritiro israeliano ai confini del ’67, eccetto gli insediamenti più larghi; Gerusalemme capitale dei due Stati, divisa su basi demografiche; adozione di un regime speciale per i Luoghi santi; riabilitazione dei rifugiati palestinesi con un qualche grado di corresponsabilizzazione per Israele; stazionamento di una forza internazionale di pace per una fase transitoria.

Fonte: Cipmo.org

9 aprile 2009

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