Con le armi della pace


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La battaglia della non violenza di Combatans for Peace. La parola a Roni Segoly, ex poliziotto israeliano, e Raed Al Adar, ex combattente palestinese, oggi dalla stessa parte della "barricata".


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Con le armi della pace

Roni Segoly, ex poliziotto israeliano, e Raed Al Adar, ex combattente palestinese, fanno parte di Combatans for Peace, e coordinano rispettivamente la struttura israeliana e quella palestinese dell’organizzazione di attivisti per la pace in Medio Oriente. “Ho lavorato per l’esercito, la polizia e i servizi segreti israeliani combattendo contro i palestinesi”, racconta Roni Segoly, “quando sono entrato a far parte di Combatants for Peace da molti anni avevo cambiato le mie idee e avevo abbandonato il mio lavoro. Ora sono un attivista per la pace, ed è stata la scelta più importante della mia vita”. Difficile per entrambi abbandonare in un angolo la divisa indossata per combattere per i propri ideali. “Non ho partecipato alla prima riunione di Combatans for Peace, quella che di fatto l’ha fondata, perché per me era molto difficile accettare di confrontarmi con ex soldati che fino a poco tempo prima erano miei nemici e causa delle sofferenze del mio popolo”, rivela Raed Al Adar. E spiega: “All’inizio era difficile avere fiducia reciproca, ora abbiamo una politica comune che richiede due Stati per due popoli, senza nessun insediamento israeliano nei territori palestinesi. Nella nostra proposta Gerusalemme Est sarebbe la capitale dello Stato palestinese, mentre la parte ovest della città sarebbe la capitale d’Israele”. Segoly e Al Adar sono stati di recente in Italia per diffondere gli ideali di pace della loro organizzazione e allacciare relazioni con la società civile e le autorità locali italiane. Li abbiamo intervistati per cercare di capire che cosa li ha spinti, ciascuno dalla propria parte della ‘barricata’, a intraprendere la strada della non violenza.

Quando avete deciso che la pace era l'unica via?

Roni Segoly: Ho sempre voluto la pace, come del resto il governo israeliano. Non ho cambiato idea in questo senso. Ma ho deciso di tirarmi fuori da un circolo vizioso fatto di violenza e di raggiungere la pace in maniera non violenta. Per 20 anni ho combattuto i palestinesi, e penso che lungo tutto questo periodo la mia mente abbia maturato le convinzioni che ho ora. Forse l’evento che più mi ha colpito e che ha cambiato la mia coscienza è stato la fine della prima Intifada, nel 1987: allora mi sono reso conto che non stavo più combattendo contro un esercito nemico, ma contro gente comune che cercava semplicemente di riconquistare la libertà. Improvvisamente non mi sono più considerato un soldato che proteggeva il proprio paese, ma un oppressore.

Pensi che ci siano molti soldati che abbiano dei dubbi ma che non la forza di fermarsi?

Roni Segoly: Sicuramente noi siamo la minoranza, solo poche persone traggono le conseguenze dai propri dubbi. È sicuramente più facile imbracciare un fucile e combattere piuttosto che tendere la mano al proprio nemico. Penso che la maggior parte delle persone non cambi idea non perché non ne abbia il coraggio, ma perché non si rende pienamente conto della situazione: io non so cosa ci abbia spinto a cambiare. Non siamo persone migliori, siamo come tutti gli altri. Magari siamo stati aiutati dalle circostanze o dal nostro bagaglio di esperienze.

Come ha reagito la gente nei Territori al progetto di Combatants for Peace?

Raed Al Adar: Vivendo sotto l’occupazione è stato molto difficile organizzare i primi incontri con gli ex soldati israeliani. Le persone consideravano strano ciò che facevamo e non capivano il nostro lavoro. Ho avuto problemi con gli amici e con i vicini; i loro occhi vedevano un ex alleato che ora collaborava con chi era responsabile delle sofferenze in Palestina. Da subito mi sono sforzato di far capire che il nostro agire andava oltre l’apparenza, e che il nostro obiettivo comune era la fine dell’occupazione. Oggi la società palestinese approva l’attività e le strategie della nostra organizzazione. Nel mio paese gli ex prigionieri politici, e molti di noi lo sono stati, vengono rispettati e ascoltati. Questa disponibilità d’animo ci ha aiutato.

Qual è stata la reazione in Israele?

Roni Segoly: La nostra non è stata la prima esperienza di collaborazione tra israeliani e palestinesi, ma la prima tra ex combattenti. In Israele le reazioni sono state differenti, perché noi siamo gli occupanti. La gente nel mio Paese pensa che l’occupazione dei territori palestinesi non sia un problema che li riguarda. In qualche modo percepiscono il mio lavoro come se io stessi aiutando i palestinesi, cioè il nemico. Pensano che tutte le nostre attività nascano dal fatto che i palestinesi soffrono e noi interveniamo in loro favore, ma la realtà è diversa: io voglio che l’occupazione finisca non solo per il bene dei palestinesi, ma principalmente per il bene d’Israele. Noi non ci rendiamo conto di quanto questa situazione ci abbia cambiati; un tempo noi eravamo le vittime e ora siamo i carnefici. Eravamo perseguitati e ora siamo persecutori. La gente non si rende conto di cosa ci sta succedendo a causa dell’occupazione. Quello che voglio è proteggere il mio popolo, recuperare la nostra identità. Questo è molto difficile da spiegare alla società israeliana. Ci chiamano ‘amanti degli arabi’ e ‘traditori’.

Che cosa fa concretamente la vostra organizzazione?

Roni Segoly: Cerca di fare incontrare ‘in pace’ il maggior numero possibile di israeliani e palestinesi. Per questo, uno dei nostri obiettivi strategici è quello di aumentare il numero di sostenitori e membri della nostra organizzazione. Sia in Israele sia in Palestina cerchiamo di coinvolgere il maggior numero possibile di persone, e uno degli strumenti che utilizziamo sono le House lectures. Ci presentiamo a questi incontri ‘in coppia’ e cerchiamo di abbattere le barriere, che comunque esistono. La nostra attività si divide per regioni: in ognuna c’è un gruppo composto per metà da palestinesi e per metà da israeliani. Si portano avanti attività a livello locale con due obiettivi. Il primo è quello di proteggere i palestinesi che vivono nella zone occupate, per esempio attraverso dimostrazioni contro gli insediamenti israeliani o contro la demolizione delle case dei palestinesi. Il secondo, di raccontare agli israeliani ciò che succede in Palestina, perché nessuno di loro conosce realmente ciò che accade. Nessuno di loro sa cosa voglia dire vivere privati della propria libertà, nessuno sa cosa sia un check point. Gli israeliani non capiscono perché i palestinesi si lamentano, ed è per questo che noi li accompagniamo nei Territori Occupati in modo che possano vedere con i loro occhi. Ai più giovani ci rivolgiamo anche con i social network come twitter e facebook, e cerchiamo di partecipare a molti incontri all’estero per far conoscere la nostra attività.

Quali sono i vostri progetti per il futuro?

Raed Al Adar: Siamo coscienti che non riusciremo a cambiare la situazione nel breve periodo. E’ tutto molto difficile e complicato, ma sicuramente ci muove la certezza di riuscire a convincere molte persone. Vogliamo recuperare la speranza, e raggiungere i nostri obiettivi attraverso il dialogo.

Come sono le relazioni con le istituzioni locali e nazionali?

Roni Segoly: In Israele non abbiamo nessun rapporto con le istituzioni. Ci relazioniamo solamente con altre organizzazioni e con la società civile.

Raed Al Adar: Abbiamo relazioni con molte organizzazioni e con le autorità locali, che sostengono il nostro lavoro. Alcuni leader di Fatah ci appoggiano perché abbiamo un obiettivo in comune: la fine dell’occupazione.
 
Qual è la situazione politica in questo momento, anche in considerazione del nuovo scenario internazionale?

Roni Segoly: Da un lato ci sentiamo disperati e disillusi. La gente non crede più nella pace. Siamo stati illusi troppe volte: Camp David, Ginevra… Dall’altro lato però la gente continua ad avere bisogno di essere ottimista. D’altronde, tutti i conflitti del mondo si sono conclusi con dei negoziati e dei compromessi. Ma non con l’imposizione della forza: possiamo continuare a ucciderci all’infinito senza risolvere nulla. In questo momento ci troviamo in una situazione di stallo, nessuno prende l’iniziativa. Ma non si può più rimandare. Esistono responsabilità da entrambe le parti, ma noi israeliani siamo più responsabili perché abbiamo il potere. Le autorità israeliane sono miopi, a loro basta non avere attentati sul nostro territorio, e fino a quando la situazione rimarrà di relativa calma non faranno nulla per risolvere il problema. Basta un niente tuttavia per ricominciare a combattere. La gente però sta capendo che non si può continuare così, non si può ignorare la causa e pensare solo agli effetti. Il fatto che al governo in Israele ci sia una coalizione di destra guidata da Netaniyau è comunque positivo: se lui farà qualcosa per arrivare alla pace nessuno obietterà. E anche l’elezione di Obama e le sue parole ci danno speranza.

Raed Al Adar: Il popolo palestinese non ha più speranze per il futuro. Quando Obama è stato eletto ha portato un po’ di ottimismo, ma è durato poco. Abu Mazen sta tentado da 5 anni di avviare dei negoziati e non ha ottenuto nulla; ci sono stati molti incontri bilaterali che non hanno portato a niente. In Palestina si cerca semplicemente di sopravvivere.

Cosa può fare l’Europa per sostenere il lavoro di Combatants for Peace?

Roni Segoly: L’organizzazione ha sempre avuto un importante supporto dall’Europa e pochissimo dagli Stati Uniti. Chi va nei Territori occupati vedrà solo cooperanti europei. Io penso che il nostro ruolo sia quello di far conoscere la ‘reale’ situazione in Medio Oriente, sta poi a voi fare pressione sui vostri governi per cercare davvero di arrivare alla pace. Comunque i Paesi europei sono da sempre i più strenui sostenitori della teoria dei due popoli in due Stati.

Fonte: OngAgiMondo

novembre 2009

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