Con il crollo degli sbarchi, sempre più "italiani" nei Cie


Redattore Sociale


Hanno moglie e figli piccoli, ma il permesso è scaduto. E l’Italia li rimpatria. Vivono qui dagli anni Novanta. E oggi sono soprattutto loro a rischiare l’espulsione. Reportage dal Cie di Roma.


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Con il crollo degli sbarchi, sempre più "italiani" nei Cie

ROMA – C’erano una volta gli sbarchi. E chi non faceva domanda d’asilo veniva smistato nei centri di identificazione e espulsione (Cie) d’Italia in attesa del rimpatrio o del rilascio con un ordine di allontanamento. Ma adesso che gli sbarchi sono diminuiti del 90% negli ultimi cinque mesi (dati Viminale), chi è che finisce dentro i Cie? Per scoprirlo siamo andati a visitare il Cie di Roma, a Ponte Galeria.
 
È il centro di identificazione e espulsione più grande d'Italia. Sorge tra l'aeroporto di Fiumicino e la Fiera di Roma. E ha una capienza di 374 posti, 176 per gli uomini, 176 per le donne e 12 per i transessuali. Lì abbiamo scoperto che, oltre a un terzo circa di ex detenuti trasferiti direttamente dal carcere, le vittime del giro di vite sulla clandestinità sono soprattutto “italiani”. Italiani tra virgolette, perché non hanno la cittadinanza, ma in Italia vivono da quindici, venti o trent’anni. Gente che ha avuto il permesso di soggiorno con le sanatorie del ‘93 e del ‘95, e che il permesso se l’è visto ritirare per scadenza termini, essendosi trovato senza datore di lavoro al momento del rinnovo. In vent’anni però in Italia uno si costruisce una vita. E allora c’è chi fuori ha moglie e bambini piccoli. Ci sono famiglie che rischiano di essere spezzate in due. In nome della sicurezza degli “italiani senza virgolette”. Drammi che hanno portato alcuni a tentare il suicidio, bevendo la candeggina o tagliandosi i polsi. Oppure a imbottirsi di psicofarmaci per non impazzire. Redattore Sociale ha raccolto le loro storie.

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Ieri sera i 178 trattenuti della sezione maschile hanno rifiutato il cibo, per protestare contro il prolungamento della loro detenzione. Molti sono dentro da più di 90 giorni. Da agosto già 5 casi di autolesionismo e un tentato suicidio

ROMA – Sciopero della fame al centro di identificazione e espulsione di Ponte Galeria, a Roma. Da ieri sera i 178 trattenuti della sezione maschile rifiutato il cibo, per protestare contro il prolungamento della loro detenzione. L’adesione è altissima. E anche oggi a pranzo il cibo è stato rifiutato. Già il primo settembre una cinquantina dei reclusi avevano rifiutato il cibo, ma la protesta era rientrata il giorno dopo. Stavolta la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la visita di alcuni giornalisti ieri mattina, a cui è stato vietato l’ingresso nella sezione maschile, ufficialmente per motivi di sicurezza. La tensione è dovuta al prolungamento del trattenimento. Lo scorso 8 agosto infatti, è entrato in vigore il pacchetto sicurezza (legge 94/09), che ha portato a 180 giorni il limite massimo di detenzione e che è stato applicato in modo retroattivo anche a chi stava già nei Cie. E a Ponte Galeria sono già tanti i reclusi ad aver superato i tre mesi di detenzione. A. Mohamed, saharawi, è dentro da 67 giorni. R. Chraiet, tunisino, da 101. Ibrahim, sudanese, da 76. B. Dogan, kurdo, da 73. E. Said, tunisino, da 96. A. Ahmed, marocchino, da 81. B. Hicham, marocchino, da 72. Arrivati al centro identificazioni e espulsioni nel mese di giugno, si erano visti convalidare dal giudice di pace un trattenimento di 60 giorni. Da agosto al cie di Roma si sono già registrati 5 casi di autolesionismo e un tentato suicidio. La presenza all'interno del Cie di sportelli di associazioni esterne (Bee Free, Differenza Donna, e Usmi per le donne, Centro Astalli, per i richiedenti asilo, e il Garante dei detenuti del Lazio) non diminuisce il clima di tensione, dovuto essenzialmente al prolungamento a sei mesi della detenzione e al rischio rimpatrio.
 
Le condizioni di detenzione non aiutano a rendere confortevole il soggiorno. Circondato all'esterno da un alto muro di cinta, e presidiato permanentemente da polizia e militari, i padiglioni all'interno sono delimitati da una doppia serie di gabbie di ferro alte quattro metri. Ogni camerata ospita dai sei agli otto reclusi e si affaccia su un cortile in cemento a sua volta recintato. I materassi sono sporchi e le lenzuola monouso. Molti preferiscono dormire fuori. La pulizia non è delle migliori, in alcuni bagni non funzionano scarichi, docce e lavandini.
 
Dalla sua apertura nel 1998, il Cie di Roma è sempre stato gestito dalla Croce rossa italiana. Anche se a fine ottobre scade la proroga dell'ultimo appalto e si preannuncia un cambio gestione, visto che la Croce rossa è stata estromessa dalla gara per l'incompletezza della documentazione presentata, pur avendo presentato un ricorso di cui si attende ancora l’esito. La concorrenza è agguerrita, si fanno i nomi di Connecting People (che gestisce i centri di Gradisca, Cassibile, Trapani e Cagliari), Auxilium (che gestisce i centri di Bari) e Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, che a Roma gestisce vari centri di accoglienza per richiedenti asilo politico (Cara).

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