Che fine hanno fatto Iolanda e Giuliano da 55 giorni sequestrati in Somalia?


Emanuele Piano


Sono quasi due mesi che non si hanno più notizie dei due italiani rapiti in Somalia. Iolanda Occhipinti e Giuliano Paganini, assieme al loro collega somalo, sono stati prelevati da uomini armati il 21 maggio scorso ad Awdeghle. Una coltre di silenzio imposta dalla Farnesina.


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Che fine hanno fatto Iolanda e Giuliano da 55 giorni sequestrati in Somalia?

Cinquantacinque giorni. E' da così tanto tempo, quasi due mesi, che non si hanno più notizie dei due italiani rapiti in Somalia. Iolanda Occhipinti e Giuliano Paganini, assieme al loro collega somalo, Abduraham Yussuf Harale, sono stati prelevati da uomini armati il 21 maggio scorso ad Awdeghle. Da allora il nulla, nessuna notizia ed una coltre di silenzio imposta dalla Farnesina. Sullo sfondo trattative difficili, la moltiplicazione di mediatori e voci incontrollate.

Notizia di un sequestro
Erano circa le quattro e trenta del mattino di due mesi fa. Due tecniche – delle jeep armate con dell'artiglieria – facevano irruzione nel compound del Cins, l'Ong dei due italiani, ad Awdeghle, villaggio a sud di Mogadiscio. Una decina di uomini armati disarmavano le guardie, bendavano Iolanda e Giuliano assieme al loro collaboratore locale, prendevano i loro portatili e partivano alla volta della capitale somala. Occhipinti e Paganini erano in Somalia per un progetto agricolo finanziato dal Ministero Affari Esteri.
Due settimane prima del loro sequestro la loro casa era stata attaccata da un gruppo di islamisti. Nello scontro a fuoco ad un posto di blocco erano morte tre persone: una guardia del Cins, un soldato governativo ed un combattente islamico. «Era un avvertimento. Avevamo chiesto a tutti di venire a Merca perché ad Awdeghle non potevamo garantire la loro sicurezza, ma non c'è stato niente da fare», ci disse all'indomani del rapimento il governatore della regione del Basso Shabelle, Abdulkadir Sheikh Nur. Iolanda e Giuliano avevano infatti rifiutato di partire con un aereo organizzato dall'Onu per evacuare lo staff internazionale. Erano diventati, loro malgrado, un obiettivo facile.
Una volta rapiti diverse fonti hanno confermato come siano stati portati a Mogadiscio. Sarebbero tenuti nella parte nord della capitale somala. Se erano contrastanti le notizie su quale gruppo li avesse prelevati – si diceva dei balordi interessati ai soldi, degli islamisti radicali, così come dei parenti di una della vittime dello scontro a fuoco – era quantomeno chiara l'appartenenza clanica del gruppo (fondamentale per capire chi sono i referenti per il rilascio ndr ): Haber Gidir/Ayr/Ayanle.

Le trattative
Immediata è stata la mobilitazione del governo e dei servizi. Secondo il Corriere della Sera, poi confermato dal numero de L'Espresso di questa settimana, il Sismi ha inviato una trentina di uomini a Nairobi. I diplomatici italiani in Kenya si sono fatti da parte per lasciare ai servizi la gestione del sequestro.
Diversi canali, ascoltati da Liberazione, hanno confermato dei contatti con i rapitori salvo poi arrivare ad un punto morto. Sono state diffuse notizie non verificabili sulla malattia, la malaria, contratta da uno dei due rapiti e che sarebbe stata curata. Così come sono state diffuse ufficiosamente delle cifre chieste per il rilascio: da mezzo milione di dollari ad un milione.
«C'è molta confusione. In molti, anzi in troppi, si sono proposti come mediatori. Il risultato è che non si riesce a capire chi sia credibile e chi no», ci ha detto una fonte che ha chiesto di restare anonima. Sullo sfondo una prima richiesta dei sequestratori: diecimila dollari per offrire una prova in vita dei due. Il nostro governo avrebbe rifiutato di pagare, mentre un gruppo di businessmen somali avrebbe racimolato metà della somma. Alla fine non se n'è fatto niente perché, come ci è stato detto, «ci siamo trovati di fronte a due muri e se questi non fanno passi per avvicinarsi non si va da nessuna parte». Anzi, il canale è stato definitivamente chiuso quando i due mediatori incaricati sono stati minacciati ed accusati di essere degli «spioni».
E' stato fatto un nome, tale Sheikh Mahmoud, come capo del commando dei rapitori. Così come è stato menzionato quello di Abu Mansur, nome di battaglia di Sheikh Muktar Robow, capo dell'ala militare dei fondamentalisti somali, gli Shaabab. Voci incontrollate, appunto. Così come sono sempre voci quelle che provengono da Mogadiscio e che parlano di case a rotazione nelle quali sarebbe tenuti Occhipinti e Giuliani nei quartieri Arafat, Hurwa, Shirqole e Sos. Più inquientanti invece le affermazioni che parlano di rapitori «stanchi e di cattivo umore» per il blocco delle trattative. Sullo sfondo un commento ricorrente: «Gli italiani hanno abbandonato la Somalia e questa ne è la conseguenza».

Cooperanti nel mirino
Le ultime settimane hanno visto un aumentare di attacchi contro il personale umanitario attivo in Somalia. E' stato ucciso il rappresentante dell'Undp ed altri cooperanti somali che prestavano i loro servizi a favore della popolazione locale. «Ormai da due settimane accadono queste cose. Sono state mandate delle lettere minatorie e gli operatori sono ormai sotto ricatto: vuoi per soldi o per scopi politici», afferma da Nairobi l'inviato speciale del governo italiano, Mario Raffaelli.
Il primo luglio sono stati rapiti cinque operatori locali di un'altra Ong italiana, la Water for Life di Trento. «Non sappiamo ancora formalmente chi li ha presi e perché», ci ha detto stamane Giuliano Bortolotti. «Ho appena portato un mio amico fuori dal Paese perché stato colpito mentre distribuiva del cibo. Un altro è stato ammazzato a sangue freddo», è invece il drammatico resoconto di un altro operatore somalo attivo a Mogadiscio. «La situazione sta cambiando e sta cambiando in peggio», è il commento di un'altra persona contattata.

«La nuova linea»
Il coro dei diretti interessati è unanime. «Non abbiamo nulla da comunicare», ci dice al telefono l'addetto stampa del Cins, l'organizzazione non governativa per la quale lavoravano i due cooperanti, Vittorio Strampelli. «Lasciamo che sia l'unità di crisi del ministero Affari Esteri a lavorare. Questa è la nuova linea della Farnesina», sostiene Strampelli. Silenzio assoluto.
Lo stesso afferma Sergio Marelli, dell'associazione delle Ong italiane che ci rimanda ai comunicati emessi nelle scorse settimane. La riflessione del mondo della cooperazione è la seguente: «E' giusto, come è stato nel passato, trasformare in politica, quindi mobilitando e facendo chiasso, un sequestro la cui gestione richiede invece grande attenzione, discrezione, calma?». Del resto, non ci sono due Simone da liberare, né una Giuliana Sgrena. Così come, dal lato del governo Berlusconi, non vi sono né Scelli da offrire come liberatori alle telecamere, né Calipari da sacrificare al "fuoco amico" salvo poi non rendergli nemmeno giustizia.
Anche i familiari dei due sequestrati scelgono il silenzio. Ce lo conferma al telefono Fulvia Cappello, moglie di Giuliano Paganini. «La situazione è in mano alla Farnesina, ci dice, ed abbiamo piena fiducia. Non è vero che non stiano lavorando solo perché non si fanno comunicati», è il pensiero della signora Cappello. Che poi ribadisce: «Sono sempre riusciti a portare a casa tutti, sarebbe il colmo se non ci riuscissero con i nostri».

Fonte: Liberazione

16 luglio 2008 

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