Centri Antiviolenza: non lasciamoli soli!


VITA


I dati sulle risorse e l’attuazione del Piano antiviolenza 2017-2020 evidenziano che solo il 10% dei fondi 2019, nonostante la pandemia, sono arrivati ai Cav. Nuovo rapporto dell’organizzazione ActionAid “Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia”, presentato alla vigilia del 25 novembre. 


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cav

 

Durante la pandemia i centri antiviolenza e le case rifugio sono gli unici spazi che hanno continuato a funzionare del sistema antiviolenza, meccanismo spesso malfunzionante o addirittura inceppato.

Solo l’enorme impegno messo in campo dai Cav (Centri anti violenza), anche nelle situazioni più critiche come quelle lombarde, ha garantito alle donne che subiscono violenza di essere supportate.

Durante il primo lockdown, quando dopo un iniziale crollo  il numero delle chiamate di aiuto al numero 1522,  tra marzo e giugno 2020 è più che raddoppiato rispetto al 2019 con  15.280 richieste  (+119,6%), in Lombardia, per esempio, c’è stata una forte riduzione dello staff nei Cav causata dal dimezzamento del numero di volontarie – generalmente di età medio-alta e quindi a rischio contagio – e dalla malattia o messa in quarantena di operatrici.

In aggiunta, i Centri sono stati costretti a turni di lavoro estenuanti, come nel caso della provincia di Cremona, che ha esteso la propria reperibilità h24 con risorse umane ridotte del 50%. Questo a fronte di ritardi e della mancanza di procedure standard delle istituzioni.

Dalla scarsità di mascherine e guanti (distribuiti solo in pochissimi casi dalle istituzioni locali come a Brescia) all’impossibilità di accedere ai tamponi, fino alla mancanza di spazi adeguati per isolamenti fiduciari. Nonostante la circolare inviata a marzo 2020 dal ministero dell’Interno alle Prefetture per rendere disponibili alloggi alternativi, i centri – ad eccezione di quelli di Pavia – sono stati costretti a ricorrere a bed&breakfast o appartamenti messi a disposizione da conoscenti e privati.

È quanto denuncia il nuovo rapporto di ActionAid “Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia”  che monitora i fondi statali previsti dalla legge 119/2013 (la legge sul femminicidio) insieme all’attuazione del Piano antiviolenza 2017-2020. Il rapporto 2020, inoltre, si è focalizzato sulla risposta all’emergenza Covid19 in Lombardia, Calabria e Sicilia, mettendo in evidenza i ritardi ormai storici della ripartizione e erogazione dei fondi dallo Stato alle Regioni, che la pandemia ha reso ancora più gravi mostrando le enormi difficoltà gestionali, economiche e di coordinamento del sistema di protezione nelle tre regioni. Difficoltà dal forte impatto sulla vita delle donne che si sarebbero potute evitare soprattutto se i piani nazionali contro la violenza fossero stati regolarmente realizzati dal 2014 ad oggi.

«Non è tollerabile che le istituzioni si presentino impreparate a fronteggiare un nuovo lockdown. L’epidemia ci ha dato lezioni che non dobbiamo dimenticare, prima tra tutte il ruolo essenziale dei Cav e delle case rifugio nel sostegno territoriale alle donne, che hanno dimostrato una grande capacità di adattamento nel reinventare un modello di intervento rapido che funziona solo con supporti adeguati.

È necessario uscire dalla logica emergenziale per creare un sistema forte e duraturo, che funzioni bene in tempi ordinari e molto bene in tempi straordinari», spiega Elisa Visconti, responsabile dei Programmi di ActionAid. Sarebbe inaccettabile sprecare tempo prezioso. Con la seconda ondata pandemica e con i nuovi lockdown territoriali, i Cav corrono il rischio di arrivare al limite delle proprie capacità di sopravvivenza e di resilienza. Oggi è necessario istituire un Fondo di emergenza con risorse aggiuntive e prontamente disponibili e Cabine di Regia locali che garantiscano efficacia e coordinamento per le reti territoriali, senza si rischia di negare alle donne una concreta via d’uscita alla violenza».

 

Le risorse e i ritardi burocratici
Al 15 ottobre 2020, le risorse ripartite dal Dipartimento Pari Opportunità per il biennio 2015-2016 sono state liquidate dalle Regioni per il 72%, il 67% per quelle del 2017. A distanza di 15 mesi del trasferimento da parte del Dpo, le Regioni hanno liquidato solo il 39% delle risorse 2018, ovvero circa 7,6 mln di euro a fronte dei 19,6 stanziati. Per l’annualità 2019, il Dpo ha ripartito tra le Regioni 30 mln di euro, di cui 20 mln da destinare al funzionamento ordinario di case rifugio e centri antiviolenza e 10 mln per il Piano antiviolenza. In tempi Covid, per rispondere ai nuovi bisogni delle strutture di accoglienza, la ministra per le Pari Opportunità il 2 aprile 2020 ha firmato un decreto di procedura accelerata per il trasferimento delle risorse per il 2019 prevedendo la possibilità di usare i fondi destinati al Piano antiviolenza per coprire le spese dell’emergenza sanitaria. Nonostante l’urgenza, a distanza di 6 mesi dall’incasso delle risorse, solo 5 Regioni hanno erogato i fondi: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto. Nel dettaglio le risorse liquidate per l’annualità 2019 sono pari all’10%. Ad oggi nessun  Decreto è stato emanato  dal Dpo per i fondi antiviolenza  2020.

 

Il Piano Antiviolenza, l’occasione mancata
Siamo alla vigilia dell’elaborazione del nuovo Piano Nazionale, ma l’analisi dell’attuazione del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne – adottato nel 2017 e reso operativo con un piano approvato due anni dopo (18 luglio 2019) – rivela la sua incompletezza e il mancato rispetto della promessa trasparenza dei processi e delle decisioni. Le risorse effettivamente impegnate sono insufficienti per coprire le azioni programmate, ma soprattutto finora risultano impossibili da verificare e monitorare se realmente spese.

 

La prevenzione, la grande assente
Se le attività previste nell’ambito dell’asse prevenzione dei piani antiviolenza fossero state pienamente  attuate nel corso degli anni, durante l’emergenza non sarebbe stato necessario l’invio di una circolare  ad hoc  alle forze di polizia per sensibilizzarle sulla violenza domestica e favorire  così  l’emersione delle richieste di aiuto da parte delle donne.

Infatti, se tali attività fossero state realizzate come previsto, l’attenzione verso la violenza di genere sarebbe già nella routine professionale  delle forze dell’ordine  grazie all’introduzione del tema nei  loro  programmi formativi, come reso obbligatori o anche  dal Codice rosso

. Lo stesso discorso vale per le altre azioni di formazione per varie categorie di operatrici e di operatori pubblici e privati. Se fossero state portate a termine in tempo, durante la pandemia, le donne avrebbero potuto avere maggiore possibilità di essere intercettate e supportate da personale dei servizi sociali, delle strutture sanitarie, degli uffici giudiziari e così via. Oppure, se il 1522 fosse regolarmente e capillarmente pubblicizzato come previsto da anni nei piani, la popolazione intera e le donne tutte sarebbero informate sui servizi a cui chiedere aiuto e,  nella fase di  lockdnwn, si  sarebbe evitata l’affannosa  corsa  alla diffusione di un servizio di pubblica utilità.

 

Vita

25 novembre 2020

 

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