(“A casa loro”): Boko Haram e l’orrore dei bambini-bomba


Anna Toro - unimondo.org


Bambini e ragazzine rapiti e fatti sparire nel nulla, a migliaia, per poi essere utilizzati come schiavi sessuali, combattenti o addirittura “bombe umane” in attacchi terroristici contro civili: succede nel nord est della Nigeria e nei paesi limitrofi (Niger, Ciad, Camerun)


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Bambini e ragazzine rapiti e fatti sparire nel nulla, a migliaia, per poi essere utilizzati come schiavi sessuali, combattenti o addirittura “bombe umane” in attacchi terroristici contro civili: succede nel nord est della Nigeria e nei paesi limitrofi (Niger, Ciad, Camerun), dove a tutt’oggi imperversa Boko Haram, il gruppo terroristico responsabile dal 2009 di innumerevoli incursioni nei centri abitati e nei villaggi, uccidendo e seminando il panico tra gli abitanti. L’uso dei bambini come kamikaze starebbe però conoscendo un aumento definito “agghiacciante”: secondo una recente nota dell’Unicef, dal 1 gennaio 2017 sarebbero infatti 83 i bambini usati per questo tipo di attacchi; di questi, 55 erano ragazze, il più delle volte sotto i 15 anni, e 27 i ragazzi, fra cui un neonato, fatto esplodere mentre era legato in braccio ad una ragazzina. Un orrore senza fine, che cresce in maniera esponenziale: dai 4 bambini del 2014 si è passati infatti a 21 nel 2015, e 19 nel 2016, fino agli oltre 80 di quest’anno: “Fino ad ora quest’anno il loro numero è già quattro volte maggiore rispetto al totale dell’anno precedente” si legge nel comunicato. Una vera e propria “atrocità” secondo l’Unicef, che tiene comunque a sottolineare come i bambini usati come “bombe umane” siano, prima di tutto, vittime e non colpevoli. “Non è chiaro se siano perfino consapevoli di ciò che viene chiesto loro di fare” spiega l’ong. Il loro utilizzo in attacchi di questo genere avrebbe infatti un ulteriore impatto: “Crea sospetti e paure nei confronti di coloro che sono stati rilasciati, salvati o fuggiti da Boko Haram. Come risultato, molti devono affrontare un rifiuto nel momento in cui cercano di reintegrarsi nelle loro comunità, aggravando le loro sofferenze”.

Se l’episodio più clamoroso rimane quello del rapimento delle 276 ragazze dalla scuola di Chibok, nello Stato nord-orientale di Borno, che ha portato le violenze del gruppo all’attenzione di tutto il mondo, dal 2009 l’insurrezione di Boko Haram ha portato alla morte di oltre 20 mila persone e costretto alla fuga 2,3 milioni di civili. Il gruppo terroristico, in collaborazione con altre organizzazioni attive nella zona come Al-Qaeda e Daesh, mira alla creazione di uno stato islamico e si oppone alla cultura occidentale considerata una minaccia: “boko”, infatti, viene spesso tradotto come “educazione occidentale” mentre la parola “haram” in arabo significa proibito (naturalmente, dietro ci sono anche interessi ben più terreni, come il potere politico e i giacimenti di petrolio di cui è ricca l’area). I militanti hanno condotto una campagna di rapimenti, assassini e bombardamenti contro coloro che considerano non credenti, inclusi il governo della Nigeria e altri musulmani, specialmente nella regione di Borno e nella capitale regionale Maiduguri, dove a tutt’oggi la crisi alimentare e sanitaria resta altissima. Negli ultimi anni, poi, il conflitto ha subito un’escalation, con famiglie e bambini sempre più intrappolati nel fuoco incrociato, case bruciate da cima a fondo ed esecuzioni sommarie, con il fine di aumentare la paura e procurare risorse per sostenere i gruppi armati.

Anche i rapimenti di bambini e ragazze fanno parte della strategia. Nell’ultimo report sul tema intitolato “Silent Shame”, l’Unicef parla infatti di operazioni “mirate e attentamente pianificate”, con le ragazze che vengono scoperte nei mercati e tirate giù dai loro letti durante le incursioni notturne. Non di rado i genitori vengono uccisi davanti a loro. Segue in genere un viaggio piuttosto lungo fino ad una base di Boko Haram nella foresta dove le ragazze sono costrette al matrimonio precoce e alla schiavitù sessuale, così come i ragazzini sono spesso coinvolti nel trasporto di munizioni e provviste, e a volte perfino nei combattimenti. Tutte raccontano di una vigilanza costante, e di esser state spesso picchiate e minacciate di morte in caso di fuga. “Molte ragazze, alcune con meno di 13 anni, sono rimaste incinte e hanno partorito senza alcuna assistenza medica” si legge nel report. Di moltissime non se n’è saputo più niente. Per altre, infine, il destino è quello di diventare “bombe umane”.

Così, sebbene gli attacchi siano in genere rivendicati da Boko Haram, “ma non sempre”, il risultato è lo stesso: “Le ragazze, i ragazzi e anche i neonati vengono osservati con sempre maggiore paranoia ai check point, dove si pensa che siano portatori di esplosivi. Le comunità sono sempre più sospettose di bambini che sono stati legati a Boko Haram, creando ostacoli alla reintegrazione e alla riconciliazione”. Proprio come è successo ad Amina, cresciuta in un’isola remota del bacino del Lago Ciad. La ragazza ha solo 16 anni quando conosce un uomo di un altro villaggio che subito la chiede in moglie. Lei accetta, contro la volontà della sua famiglia, e scappa via con lui. Quello che non sa, però, è che il suo nuovo marito fa parte di Boko Haram. Dopo esser stata manipolata e drogata viene infatti costretta anche lei a tentare un attacco suicida. Caricata insieme ad altre quattro ragazze su una canoa, le cinture esplosive legate attorno ai loro corpi, vengono spinte in direzione di un mercato affollato. Quando la barca viene intercettata, due di loro attivano la cintura, Amina invece non ci riesce e rimane gravemente ferita nell’esplosione, perdendo entrambe le gambe. Ma le sue sfortune non finiranno lì: come molti altri come lei, verrà infatti rifiutata dalla sua famiglia (rintracciata con grandi sforzi dagli operatori) e solo dopo un lungo lavoro di mediazione i parenti decideranno infine di riprenderla con sé.

“Il rifiuto da parte della società di questi bambini e il loro senso di isolamento e disperazione potrebbero renderli ancora più vulnerabili alle promesse del martirio, attraverso l’accettazione di missioni pericolose e mortali”. E’ per questo che, nei campi profughi ma non solo, l’Unicef ha attivato iniziative comunitarie di accettazione per ridurre il possibile stigma per questi bambini. I quali, inevitabilmente, portano con sé traumi inimmaginabili. “Il difficile lavoro di recupero consiste anche nell’aiutare questi bambini a immaginare il proprio futuro nelle loro comunità – si legge ancora nel report – Le iniziative comunitarie di accettazione sono essenziali per creare un ritorno accogliente. Lavorare con i leader religiosi e gli anziani della comunità diventa perciò fondamentale per aiutarli a tornare a una vita normale, accettati dalla propria comunità e fiduciosi nel proprio futuro”.

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