Cape Town, orgoglio


Junko Terao


Nella “mother city” la maggioranza della popolazione è “coloured”, categoria applicata durante l’apartheid per distinguere i meticci, discendenti degli schiavi portati lì da varie parti del mondo. Lucy Campbell recupera la storia…


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Cape Town, orgoglio

Cape Town – Della vecchia saggia, Lucelle Campbell detta Lucy, non ha affatto l’aria. E tantomeno l’età. Cinquant’anni appena compiuti, lunghi dreadlocks sale e pepe, occhi sorridenti, voce calda e generosa nel raccontare. Eppure, quattrocento anni di storia sulle spalle li sente tutti. Di sé dice due cose: che è una discendente degli schiavi e che ne è orgogliosa. Non così scontato, qui a Cape Town, dove la maggioranza della popolazione è coloured ma dove l’origine di quest’arcobaleno non si ricorda volentieri. Dalla metà del 1600, per quasi due secoli, gli olandesi della Compagnia delle Indie orientali avevano portato a Cape Town da ogni parte dell’Africa, dall’India, dalla Malesia, da Ceylon, dall’Indonesia e dalla Cina centinaia di migliaia di schiavi. Oltre il 48% dei capetonians proviene da quel miscuglio di razze che include anche il sangue degli schiavisti europei e che oggi è chiamato cape coloured. Un appellativo che Lucy non ama: “non mi ci riconosco, lo trovo sprezzante perché coniato dal potere segregazionista che ha diviso la popolazione in maniera ancora oggi così evidente”. Cape coloured, infatti, è una delle categorie create per classificare gli abitanti della penisola e applicare le regole dell’apartheid in maniera funzionale: white da una parte, black dall’altra e i coloured, con varie sfumature, da un’altra ancora. Distinguere i black dai coloured non sempre era facile, così si ricorreva al pencil test: si faceva passare una matita tra i capelli dell’esaminato che, se la matita scivolava senza problemi, finiva tra i coloured, se si impigliava nei ricci era classificato come black. A fare da collante idiomatico tra gli schiavi di ogni provenienza, l’afrikaans, etichettata come lingua dell’apartheid ma nata in realtà tra la Wale e la Adderley street, nel centro della Cape Town odierna, in uno degli edifici più antichi della città. Lo slave lodge, oggi sede del museo della schiavitù, tra il 1679 e il 1811, prima che gli inglesi lo trasformassero in sede amministrativa, ha ospitato più di novemila schiavi che lì hanno vissuto, lavorato e sono morti. E’ da qui che oggi Lucy cerca di riempire un vuoto. “In città e nelle township mancano rappresentazioni tangibili del patrimonio che ci è derivato dai khoisan – gli indigeni massacrati dagli europei – e dagli schiavi. Non c’è rispetto per le lingue indigene né per la moltitudine di culture alla base del nostro meticciato. La storia del nostro passato oscuro è confinata nelle accademie”. Ai visitatori del museo racconta se stessa. “Nelle scuole non si insegna la storia della schiavitù, ai ragazzi non si dà l’opportunità di riflettere sul patrimonio che riaffiora inesorabilmente nelle nostre identità. Senza un lavoro collettivo sul nostro passato non riusciremo a sciogliere i nodi irrisolti legati alla razza e all’identità che sono ancora oggi alla base di molti problemi della società. In questo paese abbiamo combattuto, sofferto, molte persone sono morte in nome del cambiamento, ma i risultati non sono ancora soddisfacenti, l’apartheid esiste ancora, è solo meno evidente”, spiega Lucy, ex militante dell’ANC, figlia ribelle di una famiglia della classe operaia, padre cristiano di idee socialiste e madre impiegata come inserviente nella più antica e prestigiosa tenuta vinicola della penisola. La sua sfida è quella creare una rete di ‘ambasciatori’ della storia e trasformare lo slave lodge in un luogo dove i visitatori possono incontrare persone direttamente legate a quella storia e in cui trovare anche la propria. “Il mio percorso a ritroso è iniziato con un’illuminazione. Dopo l’apartheid, alla fine degli anni ’90, mi sono iscritta all’università. Uscivo da un periodo molto difficile, ero stata disoccupata a lungo, ma poi ho trovato lavoro ai musei Iziko, la rete che collega i luoghi chiave del patrimonio storico di Cape Town e mi si è aperto uno spiraglio. Ero al museo di Groot Constantia, la tenuta vinicola dove per anni mia madre aveva raccolto uva, e su un opuscolo ho visto un’immagine che ritraeva Oloff Bergh, uno dei primi proprietari della tenuta, accanto a una donna meticcia, di chiare origini asiatiche. Per me è stata uno shock: non avevo idea che nel ‘700 un uomo bianco, per giunta così importante, potesse essersi sposato con una schiava ‘colorata’. Io ero cresciuta nel divieto assoluto di mischiarsi. Di colpo ho capito che tutto era collegabile: il genocidio dei khoisan, la schiavitù e l’apartheid. Ho cominciato la mia ricerca, ho scoperto che mia madre discendeva dagli schiavi, e ho capito quanto fossi stata esposta ai suoi traumi, a secoli di dolore e violenza che lei portava con sé e che inevitabilmente aveva trasmesso anche a me. Ho cominciato a fare visite guidate e a raccontare. Non è stato facile, l’apartheid era finita da poco e allora, come in parte ancora oggi, il retaggio di quell’epoca era ancora forte. Dopo la laurea, nel 2000, mentre mi specializzavo sulla schiavitù, ho chiesto il trasferimento alla slave lodge. Il mio lavoro oggi è quello di raccogliere i pezzi di storia e metterli insieme, non solo un recupero del passato, ma una sorta di cura”. Come Lucy, altri ‘testimoni’ stanno lavorando “per preparare un terreno fertile su cui costruire il futuro”. C’è una rete, per ora solo abbozzata, di organizzazioni e di community nate rigorosamente dal basso con quello scopo. Come il District Six museum, creato per non dimenticare la deportazione degli abitanti della zona residenziale ‘coloured’ per eccellenza, dove storicamente vivevano ex schiavi, artigiani, mercanti e una folta comunità musulmana di origine malese e da cui, nel corso degli anni ‘70, 60mila persone sono state cacciate. Il 1 dicembre è il giorno della commemorazione della liberazione degli schiavi. Ogni anno si organizzano manifestazioni ad hoc coinvolgendo le scuole. Con un messaggio chiaro, riassunto in uno slogan: “Ricorda non che siamo stati comprati, ma che siamo stati coraggiosi. Ricorda non che ci siamo stati venduti, ma che siamo stati forti. Ricorda non che siamo stati liberati, ma che abbiamo lottato”.

Fonte: Lettera22, Alias (supplemente de il Manifesto)

28 febbraio 2010

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