Boicottare? Non boicottare?


Paola Caridi - invisiblearabs.com


La campagna per il boicottaggio delle merci prodotte nelle colonie israeliane in Cisgiordania è diventata notizia anche in Italia, dopo mesi e mesi. E’ perché Coop e Conad hanno aderito al boicottaggio…


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Boicottare? Non boicottare?

La campagna per il boicottaggio delle merci prodotte nelle colonie israeliane in Cisgiordania è diventata notizia anche in Italia, dopo mesi e mesi. E’ perché Coop e Conad hanno aderito al boicottaggio: il prodotto non si vende se non viene chiaramente indicata la provenienza. Dunque, se da Israele entro i confini del 1967 oppure dalle colonie costruite nei Territori Palestinesi Occupati.

La pratica del boicottaggio, da sempre, ha dato il via a discussioni senza fine, il confine tra i pro e i contro è talmente sottile che in pochi possono dire di essere al cento per cento da una o dall’altra parte della barricata. Qualcosa di nuovo, comunque, il caso israelo-palestinese lo dice. Anzitutto, la scelta della modalità: dopo il fallimento della seconda intifada, tutta violenza e scontro, si ritorna ad alcuni degli stilemi usati nella prima rivolta del 1987, resistenza passiva e nonviolenta compresa. Il recupero di alcune delle modalità usate alla fine degli anni Ottanta si mescola, però, con le campagne di pressione (costruite su boicottaggi, azioni di lobby, public awareness e informazione via web) che sono nate attorno alla metà degli anni Novanta contro le multinazionali che non difendevano i diritti dei lavoratori e i diritti umani.

Le generazioni cambiano, insomma, e con loro i modi di fare resistenza, lobby, etc.. Non cambia il fatto che, ancora una volta, è la società palestinese ad aver dettato alla politica le modalità nuove per smuovere le acque del conflitto. Lo aveva fatto con la prima intifada, vera rivolta popolare poi usata da Yasser Arafat e dall’OLP in esilio. Lo fa ora, dopo molto tempo, in una delle fasi più delicate della politica palestinese, frammentata, incapace di superare una transizione delle èlite che dura da almeno cinque anni, spinta dagli attori internazionali lontano dalla riconciliazione interna.

I professionisti della politica, anche in questo caso, hanno compreso la potenzialità del boicottaggio. L’ha almeno compreso l’ANP, che con Salam Fayyad e con Abu Mazen (dunque con la leadership di Ramallah compatta) è scesa in campo con il suo peso, aderendo alla campagna di rifiuto di prodotti delle colonie israeliane. Da Tel Aviv, la risposta è non solo dura, attraverso le parole di Benjamin Netanyahu, sicuro che il boicottaggio farà del male solo ai palestinesi. E’ anche preoccupata, come testimoniano i continui editoriali, commenti, articoli sull’argomento che si susseguono da mesi sulla stampa israeliana.

A spaventare non è solo una campagna che possa dipingere alla comunità internazionale Israele come l’imputato, e che possa ricalcare le campagne contro il Sudafrica dell’apartheid. A spaventare è anche il fatto che, per decenni, Cisgiordania e Gaza sono state il mercato interno di Israele, lo sfogo commerciale per industrie, piccole aziende, agricoltura. Senza spazio per la concorrenza su di un piede di parità tra il commercio israeliano e un territorio occupato come quello palestinese. Cosa succederà, ci si chiede, se il boicottaggio avrà una sua diffusione?

Infine, sulla dimensione etica e politica del boicottaggio. Ho letto commenti che si chiedevano se fosse giusto boicottare Israele e non la Cina. Certo che non lo è, ma la politica, anche quella dal basso, non si fa in maniera ecumenica, boicottando tutto ciò che c’è da boicottare. Si fa attraverso campagne, come questa, come quella contro la Nike o la Nestlè, o contro i produttori di mine antiuomo, o di diamanti insanguinati. Questo è il tempo di internet e dell’attivismo diffuso, bellezza, e non ci si può far niente.

Una cosa, però, va detta, quando si vuole interpretare la campagna di boicottaggio che preme per la fine dell’occupazione dei Territori palestinesi. La campagna – che si sia o meno d’accordo con la pratica del boicottaggio – dona di nuovo alle parole e al linguaggio giuridico-politico il suo significato. Occupazione, illegalità, mancato rispetto del diritto internazionale e delle convenzioni sono termini che da tempo venivano usati in ambiti formali, senza che vi fosse ormai un rapporto tra l’uso e il significato. Parole svuotate, tanto svuotate quanto lo sono “processo di pace” e ”tavolo negoziale”. La campagna di boicottaggio ha oggettivamente gettato un sasso nello stagno di un conflitto che trova in questo particolare status quo il suo altrettanto singolare equilibrio. E ha fatto ciò che facevano i jongleur, qualche secolo fa.  Ha detto che il re è nudo. Ce n’eravamo dimenticati.

Fonte: http://invisiblearabs.com/

25 maggio 2010

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