Birmania, quelle sanzioni sono una farsa
Francesco Breviario
Le restrizioni dell’Europa non vengono controllate, non c’è embargo sulle armi. Gli affari di Cina e Russia. Contro il regime militare e in vista del voto del 2010 serve una forte pressione diplomatica internazionale.
Ancora una volta in Birmania la sanguinaria giunta militare ha perso una grande occasione: ridare democrazia al Paese.
Infatti con la condanna beffa al termine di un processo farsa, ai danni del premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, il regime militare che governa questo meraviglioso Paese da quasi cinquant'anni ha dato prova, se ancora c'era bisogno, che è meglio tener soggiogato un intero popolo a favore di pochi piuttosto che renderlo partecipe alla vita democratica.
Non bisogna dimenticare che Aung San Suu Kyi è l'unico premio Nobel della Pace vivente a dover essere soggetto, suo malgrado, a pene restrittive (ha trascorso 14 degli ultimi 20 anni in regime di detenzione) solo per il fatto che sta lottando con un'azione non violenta per la libertà e la democrazia per il suo popolo.
Sicuramente questa condanna è una trappola dello stesso regime per impedire alla leader del Lnd (Lega nazionale per la democrazia) di potersi presentare alle prossime elezioni «blindate» che si svolgeranno nel 2010. A seguito di queste elezioni, il 25% dei posti nel parlamento birmano saranno riservati ai militari, mentre per gli altri candidati ci saranno molte restrizioni a cominciare dal fatto che San Suu Kyi non avrebbe potuto candidarsi perché è stata sposata con un cittadino straniero.
L'inganno oltre alla beffa
Oltre alla beffa, anche l'inganno: infatti per «clemenza» del regime la condanna a tre anni di lavoro forzato è stata commutata in «grazia» di 18 mesi di arresti domiciliari «…tenuto conto del fatto che San Suu Kyi è la figlia di Aung San, eroe dell'indipendenza del Myanmar e la necessità di preservare la pace e la tranquillità della comunità e di prevenire eventuali deviazioni dalla "road map" verso la democrazia».
Le accuse nei confronti di San Suu Kyi nascono da un episodio misterioso e alquanto grottesco: nel maggio scorso, un cittadino americano ha raggiunto a nuoto la casa sul lago della donna e vi si è fermato per due giorni, violando i termini degli arresti domiciliari di Suu Kyi e una legge che tutela la sicurezza di stato da «elementi sovversivi». Perché tutto ciò appare alquanto misterioso e grottesco? Semplicemente per un elementare ragionamento: come può verificarsi un simile fatto in un Paese nel quale i governanti fanno del controllo e della censura i due pilastri del loro governare? E inoltre: quale altra giustificazione i generali avrebbero adottato nei confronti della leader birmana per tenerla in scacco essendo non più possibile prorogare per legge gli arresti domiciliari in assenza di episodi condannabili?
Sono domande che non trovano risposta se non in una «trovata» clamorosa coperta ad arte dallo stesso regime. Dopo la sentenza abbiamo assistito a numerose voci di protesta da parte dei vari governi, le quali passano come acqua sulla roccia per la giunta militare. Sono prese di posizione che lasciano il tempo che trovano per diversi fattori quali:
le sanzioni dell'Europa non vengono controllate nella loro efficacia e i milioni di euro (40) che la stessa UE eroga a favore della popolazione birmana non sono sottoposti a verifica;
non c'è un embargo totale delle armi;
non esiste un controllo sulle origini delle merci e le materie prime provenienti dalla Birmania (tek e diamanti) possono arrivare in occidente, anche in Italia, attraverso la copertura di società cinesi; Cina e Russia per diversi interessi economici, produttivi e geopolitici (gasdotto, porto per l'arrivo di navi container dall'Africa, costruzione di un rettore nucleare, paura di destabilizzazione dell'area geografica) non hanno interesse a inasprire il loro rapporto con la Birmania;
sempre Cina e Russia, prendendo una posizione netta contro il regime birmano che continua a negare i diritti umani, sarebbero a loro volta verificate su questo terreno al loro interno (Cecenia, Tibet);
l'India, terzo partner commerciale della Birmania dopo Thailandia e Cina, non dà segni di vita nella direzione di applicare e imporre sanzioni verso il regime birmano.
E il mondo si divide
Come si vede da questo quadro sintetico della situazione non esiste una comune azione internazionale di pressione politico-diplomatica nei confronti della giunta militare, per cui questi governanti fanno il bello e il brutto tempo senza ostacoli pesanti che ricadano sui loro benefici: solo l'Occidente resta solo a protestare. Siamo al paradosso che le sanzioni in un Paese con ricchezze naturali non influenzano l'azione criminale governativa della giunta militare e il dialogo non abita da quelle parti. Però non bisogna demordere sulle pressioni internazionali, meglio se compatte e decise affinché i diritti umani abbiano piena cittadinanza anche in Birmania, a cominciare dalla liberazione di Aung San Suu Kyi e degli oltre 2.000 prigionieri politici detenuti nelle carceri birmane.
Non possiamo rassegnarci al fatto che le prossime elezioni politiche del 2010 si svolgano in questo clima di oppressione. Già in vista di questo appuntamento elettorale, la giunta non arriva in modo ingenuo, anzi sembra che siano in atto azioni che vanno nella direzione di trasformare le organizzazioni paramilitari in partiti; se poi si aggiunge il fatto che si tiene Aung San Suu Kyi, attraverso gli arresti domiciliari, ai margini di questa competizione elettorale e i dissidenti in prigione, il gioco è fatto. I militari, attraverso i loro grossi e enormi interessi economici da conservare, sono i padroni assoluti della Birmania e per mantenere la loro agiatezza assoluta non hanno bisogno di trovare intralci di nessun genere, tanto meno una opposizione o peggio ancora una maggioranza democratica.
L'azione internazionale dovrà concentrarsi principalmente sul fatto di aprire una relazione costante, quotidiana e forte appoggiando e interloquendo con il governo democratico birmano in esilio che vinse le elezioni del 1990, partendo da un'azione comune basata sul chiedere una revisione della Costituzione e la liberazione di Aung San Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici. La Costituzione, disegnata dalla sola giunta militare, non può rimanere irriformabile a partire dalle norme sul lavoro e quelle che vietano la libertà di associazione: tutto ciò rimane uno scandalo.
La Cisl, dopo tutta l'attenzione alla questione birmana che in questi anni ha messo in campo grazie anche all'impegno, alla passione e alla competenza di Cecilia Brighi del Dipartimento Internazionale, non rimarrà certamente indifferente e metterà in campo, per le sue competenze, tutte le attenzioni ed energie necessarie affinché attraverso collegamenti e azioni concrete con il sindacato birmano in esilio, la Birmania raggiunga quel tanto sospirato traguardo di democrazia e libertà per tutto il popolo birmano.
Anche a Bergamo la Cisl attraverso il suo Dipartimento internazionale Iscos e pace insieme ad altre realtà associative (Associazione itinerari di Telgate, Wwf, Legambiente, Greenpeace) e al mondo scolastico (Consulta degli studenti, liceo artistico) continueremo ad essere uno dei punti di riferimento per tener viva questa attenzione particolare, consapevoli del fatto che mai come in questo momento le vicende che accadono fuori casa nostra solo apparentemente non ci riguardano.
Francesco Breviario
Operatore Responsabile
Dipartimento Internazionale
Iscos e pace-Cisl Bergamo
Fonte: L'ECO di BERGAMO, rubrica “Quadrante”
17 Agosto 2009