Beirut rinasce, ma i cristiani hanno paura!
Giampaolo Cadalanu
Nella capitale devastata dall’esplosione si fanno avanti gli speculatori edilizi, pronti a comprare le case danneggiate. E aumenta il numero di quelli che vogliono lasciare il Libano
C’è ancora un frigorifero sopravvissuto nella bottega di George: non sia mai detto che gli ospiti arrivati a chiedere come va la ricostruzione vadano via senza aver bevuto almeno un succo d’arancia. I resti della vetrina sfondata dall’esplosione del 4 agosto sono già spazzati via, il pavimento è immacolato, ma la porta è sparita e negli scaffali è rimasto ben poco. “Vivo a Junieh, quando sono arrivato il negozio era già stato svuotato dai ladri. Ma vado avanti, ricostruirò tutto. Sono solo, ho 76 anni, ma la Madonna mi aiuterà”. E gli aiuti della Chiesa? “Non voglio la carità, ma se qualcuno venisse a dare una mano non lo manderei via”.
George è un cristiano di Ashrafieh, di quelli che ad andar via da Beirut non pensano proprio. “So che esponenti di Hezbollah stanno girando fra case pericolanti e magazzini distrutti, offrono valigie di dollari a chi si fa tentare. Stanno cercando di approfittare dell’occasione per mandar via i cristiani. Ma nella nostra comunità nessuno è disposto a cedere. E il comune insiste a ricordare che per il momento ogni vendita è bloccata”.
Danielle, volontaria che distribuisce acqua e pasti caldi dietro la chiesa di Sant’Antonio, non è convinta: “Cerchiamo di aiutare chi ha avuto la casa danneggiata, ma spesso non troviamo i proprietari. Saranno sfollati in campagna, o magari hanno già lasciato il Libano, chissà”.
La catastrofe del porto rischia di stimolare nuove partenze e aumentare la diaspora libanese, già immensa, con quattro milioni di abitanti e dodici di espatriati.
L’Europa, le Americhe, i Paesi del Golfo: per la gente stremata dalla crisi economica il disastro di Beirut è suonato come un ultimo avvertimento. E per chi ha vissuto i 15 anni di guerra civile, il boato è un ritorno nell’incubo.
L’ingorgo sulla Corniche, la panoramica a fianco del porto, indica che gli automobilisti si fermano ancora per guardare la zona dell’esplosione. Dietro gli hangar rasi al suolo, due ruspe sgomberano macerie. Lo scalo è vitale per Beirut, la città dei traffici. Con lentezza, il porto ricomincia a vivere, per ora al 30 per cento della capacità: due moli hanno riaperto, sette gru montacarichi su 16 sono attive, al largo gigantesche navi portacontainer aspettano il loro turno per sbarcare le merci.
L’area dei danni si estende per un raggio superiore a 15 chilometri. Ma i capannoni annichiliti e le strutture metalliche annodate danno un’impressione sbagliata. In realtà i silos del grano hanno assorbito gran parte dell’onda d’urto e hanno protetto una parte della città. Con 178 morti registrati, una trentina di dispersi, seimila feriti e 47mila appartamenti danneggiati, la scala del disastro è impressionante, ma non è un colpo mortale, se non forse per la morale. “Il trauma è stato enorme”, racconta Alda Cappelletti, direttrice dei programmi dell’Ong italiana Intersos, impegnata nei soccorsi: “Oltre a distribuire kit di emergenza, abbiamo dovuto allestire anche un supporto psicosociale”.
Chi si può permettere di scegliere, è ottimista. A Sursock street, uno dei quartieri più lussuosi con dimore storiche, palazzi ultramoderni e ambasciate, Elie e Raquel, franco-libanesi, stanno caricando bambini e bagagli sulla Range Rover. “Andiamo in campagna, finché non sistemano il nostro appartamento, che è devastato. Tornare in Francia? Ma no, i nostri figli vogliono stare vicino ai nonni. E la vita a Beirut ci piace”. Muriel Kahwagi, responsabile della comunicazione per il museo Sursock, è meno positiva: “Abbiamo subìto danni per milioni di dollari, ci sono già stanziamenti per la collezione d’arte, e alla fine anche il governo ha promesso aiuti. Ma la gente di Beirut è stanca. Non vogliamo ricostruire, e ancora ricostruire, ricominciare da capo ogni pochi anni. Andiamo avanti solo perché non abbiamo scelta”.
May Haddad fa parte di una famiglia benestante, e se le banche non avessero bloccato i suoi conti, sarebbe partita da un pezzo. Ma ora ha deciso: “Halas! Basta! In Libano non si può più vivere. Me ne vado in Europa. L’esplosione mi ha fatto tornare gli incubi della guerra. Mi torna in mente quando avevo cinque anni e hanno rapito mio padre, non è mai tornato. Mio marito ci raggiungerà quando potrà”.
Anche a nord della capitale, dove l’esplosione non ha provocato danni, l’ansia dei cristiani è palpabile. “Più che sentirci minacciati, siamo sfiduciati”, dice padre Boulos, dopo la messa alla chiesa ortodossa di Sayedat el Najat, a Byblos. Lo interrompe Vanda Joundarc, libanese d’Australia: “Del Libano non possiamo più fidarci. Dopo il disastro ho raccolto 70 mila dollari di aiuti, ma la burocrazia mi impedisce di farli arrivare”.
Padre Jean, della chiesa di Saint Jean-Marc, è ancora più disilluso: “Qui i cristiani sono l’anello debole, la minoranza che il mondo è pronto a sacrificare, come i curdi, o gli armeni. Come diceva Giovanni Paolo II, il Libano non è un Paese, è un messaggio di convivenza. C’è una sola prospettiva, la pace. Ma per ora abbiamo i soldati fuori della chiesa, visto che abbiamo ricevuto minacce”. Fuori dal sagrato, una berlina Kia espone sul lunotto un adesivo con l’immagine del rosario. In altre auto il simbolo di devozione è appeso allo specchietto, come dichiarazione di identità. Ma ormai è un luogo comune: la tradizionale lottizzazione del potere fra gruppi religiosi non è più una garanzia.
Persino sul monte Libano, sopra la baia di Junieh, i pellegrini al santuario di Nostra signora di Harissa esprimono disagio. “Siamo diventati una minoranza, solo qui sulla montagna mi sento serena”, dice Hiam, 44 anni, titolare di una boutique chiusa dalla crisi. Suo figlio Elie studia da meccanico: “Non ho problemi con gli altri gruppi, ho tanti amici musulmani. Ma non sono contento di vedere navi militari straniere nel porto di Beirut. Si parla di aiuti dopo l’esplosione, ma temo che lo scopo non sia aiutare la popolazione. E se dovesse ripartire una guerra, i cristiani sono destinati a diventare danni collaterali”.
Giampaolo Cadalanu
25 agosto 2020
Repubblica