Bambini e mattoni, l’altro Afghanistan


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Nelle fabbriche dei materiali edili il 56 per cento dei lavoratori sono minori. Spesso «ceduti» già da piccoli per ripagare i debiti dei profughi.


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Bambini e mattoni, l'altro Afghanistan

Tra le emergenze che l'Afghanistan vive nel tentativo di creare uno Stato non solo unitario, ma anche solidale e di diritto, c'è la condizione delle sue donne e dei suoi figli. Una condizione generalmente sfavorevole, che si intreccia nell'ambito lavorativo con ampie aree di sfruttamento.
Per la fede islamica della maggioranza della popolazione (ma anche per antico retaggio tribale) alle donne non è infatti consentito lavorare a fianco degli uomini una volta superata la pubertà. Di conseguenza – in attività che altrove vedono la presenza di una massiccia manodopera femminile – nel tribolato Afghanistan sono impegnati soprattutto i minori di genere maschile.
Un nuovo rapporto sul lavoro coatto nelle fabbriche di mattoni in Afghanistan diffuso a gennaio dall'Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) ha messo in luce la drammatica realtà dei minori, che di questa manovalanza costituiscono la maggioranza: ben il 56 per cento dei lavoratori. Percentuale che scende solo al 47 per cento restringendo il campo a quanti hanno meno di 14 anni. In questa fascia di età inferiore si colloca anche un certo numero di bambine – il 14 per cento -, percentuale che si abbassa con l'aumento dell'età fino a perdersi quasi del tutto per le donne adulte.

CON UNA SITUAZIONE coincidente con quella del confinante Pakistan (ma anche in parte di India, Nepal e Ban-gladesh) si tratta di manodopera in condizioni di sostanziale schiavitù. A renderla tale sono i debiti contratti dalle famiglie la cui dipendenza, nel caso afghano, risale nel 98 per cento dei casi a un'esperienza passata come rifugiati in Pakistan. Qui hanno contratto debiti per necessità spesso improrogabili, che al loro ritorno li hanno legati agli interessi degli strozzini i quali poi li hanno «ceduti» ai proprietari delle fornaci.
Si tratta di una situazione che si inserisce in un contesto di degrado sociale, occupazionale e di bisogni estremi, come conferma Khair Niru, viceministro del Lavoro del governo afghano: «Data l'elevata natalità, i membri attivi delle famiglie devono sostenere un gran numero di persone – spiega -. Nel contesto afghano, questa situazione è ideale per costringere i minori a entrare nel mercato del lavoro: 1,9 milioni di bambini, ovvero il 21 per cento nella fascia d'età tra 6 e 17 anni, sono oggi impiegati in una qualche attività lavorativa. E per almeno 1,2 milioni di loro possiamo parlare di vero e proprio lavoro minorile».
Sono dati che l'Ilo conferma. Tra i nuclei familiari coinvolti dal rapporto nella provincia di Kabul e di Nangarhar, gli esperti dell'organizzazione hanno riscontrato una media di 8,8 figli, di cui solo il 15 per cento riceve una qualche forma di istruzione, il più delle volte per merito di iniziative educative non permanenti.
Una situazione che pone una seria ipoteca sulla vita di tanti giovani afghani, che in maggioranza finiscono poi con l' «ereditare» i debiti dei genitori, raramente estinti per il continuo aggravio di interessi e per gli incentivi a contrarne di nuovi da parte degli stessi datori di lavoro.
Non a caso il 64 per cento delle famiglie intervistate ha dichiarato di trovarsi in questa tragica condizione da almeno 11 anni e il 35 per cento da almeno vent'anni.
La volontà di restare sostanzialmente padroni della vita dei loro dipendenti spiega la disponibilità dei proprietari delle fornaci ad offrire un alloggio precario ai nuclei familiari, ma anche le basse retribuzioni. Con orari che variano tra 70 e 80 ore settimanali, minori, adulti e sovente intere famiglie lavorano per salari giornalieri che oscillano tra l'equivalente di 4,56 e 6,26 euro per gli adulti e fra 2,6 e 4,2 euro per i bambini.

LE SCARSE ALTERNATIVE o protezioni giuridiche le conferma Hervé Berger, responsabile dell'Ufficio dell'Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) in Afghanistan: «Anche se ci troviamo di fronte ad una grave situazione di sfruttamento minorile – commenta – dobbiamo astenerci dal proibire immediatamente questa forma di lavoro. Se lo facessimo finiremmo per peggiorare le condizioni delle famiglie e fare esplodere il lavoro nero».
Una situazione di indubbia gravità che va però vista nel contesto locale. «Il fenomeno del lavoro forzato e ancor più del lavoro coatto di minori nelle fabbriche di mattoni – sottolinea Berger – si ritrova in Asia meridionale, ma anche nel Medio Oriente e in Sudamerica. Legato alla povertà, ma anche alle ridotte possibilità di lavoro decente concesse alle famiglie». Il Rapporto su Rischio e Vulnerabilità del 2007-2008, curato sempre dall'Organizzazione, confermava che già allora il 38 per cento della popolazione afghana non riusciva a soddisfare le proprie necessità di base e poco è cambiato negli ultimi anni. Più della metà della popolazione è molto vicina al livello di povertà: basta poco perché intere famiglie vi cadano. La Costituzione afghana proibisce nell'articolo 49 il lavoro forzato e in particolare quello minorile; il governo della Repubblica islamica dell'Afghanistan ha anche ratificato la Con¬venzione C138 sull'età minima di accesso al lavoro e la C182 sulle peggiori forme di lavoro minorile, ma devono ancora essere accolte dal Codice del lavoro.
Nel caos afghano che va gradualmente attenuandosi, è troppo facile puntare il dito sulle tante responsabilità e anche sulle eventuali inadempienze dell'amministrazione del presidente Hamid Karzai. Come indica il ministro Niru «sarebbe ipocrita negare al Paese la comprensione che merita. Nel ventennio precedente la caduta dei talebani, nel 2001, l'Afghanistan ha visto sistemi economici e politici diversi, ciascuno dei quali ha contribuito a miserie che hanno pochi esempi nella storia moderna. Milioni di persone hanno lasciato l'Afghanistan per vivere spesso in condizioni sub-umane come profughi oltreconfine. Ciascun sistema, poi, ha avuto implicazioni sul mercato del lavoro, deteriorando ampiamente la situazione dell'impiego e rendendo la popolazione più vulnerabile. Povertà persistente e sotto-occupazione sono stati elemento quasi costante dei diversi regimi».
«È del tutto ovvio – aggiunge il rappresentante Ilo a Kabul – che a soffrire di più in tempo di crisi siano le donne e i bambini. Soprattutto questi ultimi sono a rischio di essere privati di adeguato affetto, cure mediche ed educazione. L'insicurezza e la povertà colpiscono la loro capacità di realizzarsi pienamente e negano loro diritti fondamentali. I risultati sono evidenti: maggior numero di minori al lavoro, salute precaria e istruzione limitata se non assente. I bambini sono il futuro del Paese e se il governo garantirà il loro benessere e la loro sicurezza, ne beneficerà il futuro dell'Afghanistan».

GUARDANDO OLTRE la situazione attuale, a una stabilizzazione del Paese che faccia tesoro dell'esperienza passata, quanto il degrado attuale è dovuto all'instabilità provocata dal conflitto, ma anche alla lunga storia di instabilità e di devastazione? E la religione è un problema reale quando parliamo di sottosviluppo, povertà, sfruttamento… lo sono le faide etniche, tribali, tra i gruppi di potere?
«Ovviamente l'Afghanistan ha sofferto per tutte le conseguenze delle guerre del passato e per i conflitti ancora attivi – risponde il ministro Niru -. Lo sviluppo non viene certo beneficiato dall'utilizzo di preziose ma scarse risorse per garantire la sicurezza. Cerchiamo comunque, come governo, di affrontare la doppia questione sicurezza e sviluppo con l'assistenza attiva dei nostri partner. I risultati cominciano già a vedersi. La religione musulmana – continua – ha sempre insegnato fratellanza e uguaglianza e questi sono i pilastri su cui ogni società dovrebbe basare il proprio progresso: non vi è spazio per il tipo di radicalismo promosso e praticato da una minoranza che distorce l'insegnamento illuminato dell'islam. Contrasti tradizionali e etnici sono presenti in molti Paesi, l'Afghanistan non fa eccezione. Tutta¬via le sue diversità non possono essere una fonte di tensione nel Paese. La sua società multietnica può, al contrario, essere un punto di forza, con la condivisione di risorse e di esperienze accumulate nella storia».

Fonte: http://www.missionline.org
2 Giugno 2012

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