Ballarò più sicuro grazie agli africani


Redattore Sociale


Hanno rivitalizzato il centro storico di Palermo, nella città vecchia si convive senza paura dello straniero. I figli degli stranieri riescono a scuola spesso meglio degli italiani. Ma a comandare in quei quartieri sono sempre i boss della mafia.


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Ballarò più sicuro grazie agli africani

Palermo –  Hanno contribuito positivamente a restituire il centro storico alla città, i loro figli, nati a Palermo, sono spesso più bravi a scuola degli italiani, ma per i palermitani del centro storico sono ancora tutti indistintamente “i turchi”. In realtà provengono dall’Africa sub sahariana, da Eritrea ed Etiopia, da paesi asiatici come il Pakistan, il Bangladesh e lo Sri Lanka. Sono le comunità di immigrati che a partire dagli anni Ottanta si sono insediate nei quartieri popolari famosi per i mercati tradizionali: da Ballarò alla Vucciria al Capo. A Palermo c’è anche Chinatown in via Lincoln, nei pressi della stazione ferroviaria e in città vive la comunità Tamil più numerosa in Italia con circa tremila persone. Una realtà variegata e spesso sottovalutata a causa dei numeri ridotti rispetto al fenomeno migratorio presente nelle città del Nord.
“Più che integrazione, c’è una pacifica convivenza, ogni gruppo tende a fare comunità a sé, la piazza non è interculturale, è multiculturale” spiegano i volontari del centro salesiano “Santa Chiara”, nel cuore pulsante di Ballarò, nello storico quartiere dell’Albergheria. Ha quasi cent’anni di storia, nacque come orfanotrofio e da tre decenni si occupa degli immigrati. Il primo posto di cui si chiede arrivando a Palermo da straniero, ma anche un punto fermo per gli abitanti palermitani del quartiere. La struttura fu occupata  negli anni Settanta dagli sfrattati di Ballarò che venivano espulsi verso le case popolari delle periferie durante il ‘sacco di Palermo’. Gli sfollati che chiedevano la ristrutturazione delle vecchie case e i primi immigrati iniziarono così a mescolarsi negli anni Ottanta. “I primi stranieri si sono insediati dove c’era degrado, le case costavano meno o erano abbandonate, nel frattempo il quartiere è diventato multietnico” racconta Giovanna Di Miceli, educatrice e coordinatrice dell’asilo che accoglie 45 bambini da zero a cinque anni di oltre 20 nazionalità. Dopo due anni di volontariato nel centro, affascinata dalla realtà unica di Ballarò, vi si è trasferita per coordinare la struttura.

“Ti inserisci nella repubblica autonoma di Ballarò, è forte la distinzione tra chi abita qui e chi è di fuori, è un mondo dentro la città” specifica il salesiano Don Giovanni D’Andrea.  Basta fare un giro per le strade per vedere che accanto ai banchi caratteristici del mercato con le primizie siciliane sono nati molti african market gestiti da ghanesi e negozietti indiani. La sera, dopo la chiusura del mercato, la piazzetta di Ballarò diventa territorio degli africani, seduti fuori a bere una birra stout, spesso insieme agli italiani. Ma quello che a prima vista può sembrare un paradiso della convivenza nasconde una realtà molto più complessa. Gli stranieri approdati in un centro storico degradato, hanno contribuito con la loro presenza e le attività commerciali a restituirlo alla città. “Da luogo pericoloso a luogo vissuto, grazie alla vita di piazza e agli stranieri” secondo Clelia Bartoli, docente di Diritti Umani all’Università di Palermo. Un processo che si è mescolato a partire dalla metà degli anni Novanta con la ‘primavera palermitana’ dell’allora sindaco Leoluca Orlando. Con l’apertura di locali notturni per i giovani, tavernette e ristorantini, alla Vucciria come a Ballarò sono diminuiti drasticamente gli scippi e i quartieri, un tempo proibiti, sono ora fruiti da tutti anche di notte con una certa sicurezza.

“Il quartiere non vive l’altro come un pericolo, abbiamo settecento anni di convivenza e i palermitani di Ballarò sono famiglie allargate che vivono in una stessa casa, un po’ come gli stranieri” spiega Don Giovanni D’Andrea. Nel quartiere gli africani non sono gli ultimi, c’è chi è più disagiato di loro. “C’è un forte abbandono scolastico precoce tra gli italiani, i figli degli immigrati a scuola sono più avanti dei ragazzi italiani – continua il salesiano – la prima circoscrizione ha uno dei tassi più alti di dispersione scolastica, circa il 23% e poi oltre al lavoro nero c’è lavoro minorile, i ragazzi, sia stranieri sia italiani, sono impiegati al mercato dalle 7 alle 21 per 50 euro a settimana”. Ma soprattutto, gli stranieri devono sottostare come tutti alle regole dettate dai boss. “I capi mandamento sono i D’Ambrogio e i Gravanti – dice il sacerdote – dentro il quartiere lo Stato è poco presente”. Anche secondo Clelia Bartoli “sono territori controllati centimetro per centimetro dai boss locali, per cui se attività lucrative sono concesse, le aree sono ben delimitate, si paga il pizzo anche per spacciare e per le piazze della prostituzione”. Negli ultimi anni è diventato sempre più evidente il fenomeno delle sex workers nigeriane nei vicoli della Kalsa, il quartiere popolare in cui nacque Borsellino. “I mafiosi non hanno mai gestito la prostituzione direttamente perché è ‘fonte di vergogna’ – continua la docente – probabilmente ci sono accordi dei nigeriani con la mafia”. Ma a vendersi sulla strada sono anche etiopi ed eritree, con clienti italiani e stranieri. “C’è poi una prostituzione cinese rivolta ai cinesi” afferma Bartoli. Un’équipe che fa parte di un progetto misto tra il Santa Chiara e la Caritas contro la tratta ha monitorato visivamente 33 punti per la prostituzione su tutta la costa cittadina, dal Foro Italico all’Ucciardone, con donne dell’est, di colore e anche trans. L’antropologo americano Jeffrey Cole ha studiato la prostituzione nigeriana a Palermo e gli interventi messi in atto da alcune associazioni, arrivando alla conclusione che in città non ha avuto successo l’applicazione dell’articolo 18 per le vittime di tratta perché gli sfruttatori non vengono denunciati, ma sono riusciti gli interventi per la riduzione del danno, come la diffusione dell’uso del preservativo. Secondo Cole, la popolarità delle nigeriane è dovuta “ai costi bassi e agli stereotipi razziali”.

Fonte: www.redattoresociale.it
6 Agosto 2010

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