“Arabi ed ebrei insieme. Ecco il mio nuovo partito”


Umberto De Giovannangeli - L'Unità


L’ex presidente della Knesset: “Bisogna cambiare. Il governo è ostaggio di una destra che ci ruba il futuro. L’opposizione è ormai inconsistente”.


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"Arabi ed ebrei insieme. Ecco il mio nuovo partito"

La doppia sfida di Avraham Burg. Ad un governo, quello guidato da Benjamin Netanyahu, «ostaggio di una destra che sta sequestrando il futuro d'Israele», e a una opposizione «inconsistente, in perenne oscillazione tra testimonianza e bramosia di poltrone». Avraham Burg, ex presidente della Knesset, il più giovane nella storia dello Stato d'Israele, già dirigente laburista, scende di nuovo nell'agone politico. E lo fa proponendo la costituzione di un nuovo partito. «Sarà un partito arabo-ebraico – anticipa Burg – e si chiamerà “Shivion-Israel” (Eguaglianza per Israele)».

Un partito arabo-ebraico. Cosa c'è dietro questa caratterizzazione?

«C'è la volontà di contrastare una deriva fondamentalista dell'identità nazionale. C'è la determinazione a unire una comunità che la destra oltranzista vorrebbe dividere, emarginandone una parte, quella araba, che rappresenta oltre il 20% della popolazione. C'è l'ambizione di ridefinire l'essere israeliano in base alla condivisione di principi e valori comuni, piuttosto che sulla base di una appartenenza etnica, religiosa».

Un programma ambizioso, qualcuno potrebbe dire utopistico…

«Viva l'utopia se serve a risvegliare le coscienze, a ridare un senso alto e nobile all'impegno in politica. Non è l'utopia a minacciare Israele, ma l'appiattimento sull'esistente, un'assoluta mancanza di respiro strategico che accomuna oggi chi governa e chi è all'opposizione. La sfida è a un ceto politico che s'illude di poter fermare il tempo in un eterno presente, finendo così per tenere in ostaggio il futuro del Paese, e in particolare quello delle giovani generazioni. Questa sfida nasce dalla convinzione che la più grande minaccia interna per Israele è l'erosione del suo tessuto democratico, che ha già perso buona parte della sua sostanza, dei suoi valori. Quello che intendiamo realizzare sarà il partito di coloro che si sentono impegnati a difesa dei valori universali della dignità umana, che credono nella ricerca della pace, mossi da un insopprimibile desiderio di libertà, giustizia e eguaglianza».

Insisto ancora sul carattere ebraico-arabo del nascente partito. In termini di agenda politica, cosa significa questa connotazione identitaria?

«Significa essere in prima fila nella lotta contro il razzismo e la discriminazione, superando i paradigmi del sionismo classico, che ignora l'esistenza degli arabi-israeliani. Unire identità e storie diverse è un'avventura affascinante in una fase storico-politica in cui è più facile costruire muri di separazione che ponti di dialogo. Chi decide di farne parte accetta la definizione di Israele come uno Stato il cui regime è democratico ed egualitario, e che appartiene a tutti i suoi cittadini. Lo Stato in cui gli ebrei hanno scelto di rinnovare la loro sovranità e dove realizzano il proprio diritto all'autodeterminazione, senza che questo significhi esclusione, ghettizzazione, verso le altre comunità. L'espressione di questo impegno sarà lo sforzo collettivo di modificare l'equilibrio sociale del potere, che è profondamente ingiusto, per dari pari opportunità a tutta la popolazione in Israele, indipendentemente dall'origine etnica, di sesso o religiosa. Credo davvero che sia giunto il momento per un partito israeliano arabo-ebraico, che innalzi con orgoglio, e sostanza, la bandiera di un impegno totale verso l'uguaglianza, senza traccia di discriminazione e di razzismo. Cristallizzare la separazione significa fare il gioco di chi punta al mantenimento dell'attuale status quo: la nascita di “Shivion-Israel” è anche un'opportunità per gli arabi israeliani di uscire dall'immobilismo post-1948. Ciò che vorrei contribuire a realizzare, infine, è un partito che abbia il coraggio di dire la verità alla gente per ciò che riguarda il riconoscimento delle ragioni e dei diritti dell'”Altro da sé”: il popolo palestinese».

Quale sarebbe questa verità per Avraham Burg?

«Dire che la pace non può essere a costo zero per Israele, che non è possibile tenersi tutto quanto senza pagare un prezzo. Non possiamo tenere una maggioranza palestinese sotto lo stivale israeliano, e al tempo stesso pensare di essere l'unica democrazia del Medio Oriente. Questa è una improponibile “quadratura del cerchio”. Non può esservi democrazia senza uguali diritti per tutti coloro che vivono qui, arabi come ebrei. Non possiamo tenerci i Territori, disseminandoli di colonie, e conservare una maggioranza ebraica nell'unico Stato ebraico al mondo. Non con mezzi umani, morali, ebraici».

La destra ultranazionalista non ha accantonato il sogno di dar vita al Grande Israele…

«Più che di “sogno” parlerei di incubo che può sfociare in tragedia… Anche qui: si abbia il coraggio di dire la verità. Volete il Grande Israele? Non c'è problema: basta abbandonare la democrazia. Creiamo nel nostro Paese un efficiente sistema di separazione razziale, con campi di prigionia e villaggi di detenzione. Il ghetto di Kalkilya e il gulag di Jenin. Volete una maggioranza ebraica? Non c'è problema: o mettere a forza gli arabi sugli autobus e li espellete in massa, oppure ci separiamo da loro in modo assoluto. Una via di mezzo non c'è».

Il che significa?

«Significa smantellare tutti, ma proprio tutti, gli insediamenti e tracciare un confine internazionalmente riconosciuto fra il focolare nazionale ebraico e il focolare nazionale palestinese».

Il discorso ci riporta all'essenza della democrazia…

«E al coraggio di dire la verità. Dire: se è la democrazia ciò che volete, avete due opzioni: o rinunciare al sono del Grande Israele nella sua totalità, alle colonie e ai loro abitanti, oppure concedere a tutti, compresi gli arabi, la pienezza della cittadinanza con diritto di voto alle elezioni politiche. In quest'ultimo caso, coloro che non volevano gli arabi nello Stato palestinese vicino li avranno alle urne, a casa propria. E loro saranno maggioranza, noi minoranza».

Lei non è la sola personalità che ha deciso di tornare alla politica attiva. A scegliere questa strada sono anche l'ex capo di stato maggiore, il generale Dan Halutz, l'ex ministro ortodosso degli Interni Arye Deri…

«È una compagnia con cui non ho nulla a che spartire….Costoro sono come pesci freschi che vanno a sostituire i pesci morti. Ma moriranno anch'essi, perché è l'acqua della piscina-Israele che è avvelenat».

Non sente di “tradire” il suo ex partito: il Labour?

«No, perché il Labour si è “tradito” da solo, scegliendo l'illusoria scorciatoia del potere per mascherare una crisi drammatica di progettualità, di radicamento sociale, di leadership. Una crisi che viene da lontano ma che Ehud Barak (l'attuale leader del Labour e ministro della Difesa, ndr) ha contribuito a rendere ancor più lacerante. Non è rincorrendo la destra sul suo terreno che si costruisce un'alternativa degna di questo nome».

In definitiva, qual è l'obiettivo, l'ambizione di “Shivion-Israel”?

«È contribuire alla rinascita di uno Stato di Israele basato su un regime democratico ed egualitario, che appartenga a tutti i suoi cittadini e a tutte le sue comunità. Shivion-Israel vuol essere il partito che esige la piena parità per tutti i cittadini d'Israele, il tipo di parità che chiediamo anche per gli ebrei della Diaspora ovunque essi vivano».

Lei parla di uno Stato che “appartenga a tutti i suoi cittadini e a tutte le sue comunità”. Ma nel governo e nella società d'Israele vi è chi, e non è una sparuta minoranza, punta sull'affermazione di Israele come Stato a totale identità ebraica. «Una prospettiva contro cui mi batterò con tutte le mie forze. Perché è una prospettiva eticamente sbagliata, politicamente nefasta. E perché non può funzionare. Definire Israele come Stato ebraico è la chiave per la sua fine. Uno Stato ebraico è un esplosivo».

Fonte: l'Unità

28 luglio 2010

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