Alla mercé di un Mig, vivere (e morire) in Siria


Andrea Bernardi - unimondo.org


Quando il sole se ne va i giornalisti lasciano la città. I civili siriani che non possono o non vogliono sono ancora lì, consapevoli che presto o tardi un’altro aereo tornerà e saranno costretti a guardare il solito film.


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Al Bab – È quando meno te lo aspetti che arriva il pericolo. Non ti avvisa nessuno. Solo un forte rumore proveniente dal cielo è il segnale che il MIG sta per piombare con le sue potenti bombe da qualche parte. Le teste di chi è per strada sono tutte rivolte in alto. Il Jet volteggia nel cielo per qualche minuto, poi punta dritto verso l’obiettivo. Che quasi mai centra. Qualche secondo di silenzio, il boato, il fumo e la solita tragedia che si ripete quasi ogni giorno da oltre due mesi. Non è la scena di un film, ma la quotidianità di chi vive nella cittadina di Al Bab, roccaforte dei ribelli a meno di 40 chilometri da Aleppo. Qui non ci sono combattimenti per le strade, non ci sono cecchini dell’esercito libero siriano appostati sui tetti delle case da abbattere. Non siamo nel campo di battaglia di Aleppo. La città, come dicono i suoi abitanti, “è stata liberata da parecchio tempo”.

Non c’è un orario preciso. Si sa soltanto che tutti i giorni, almeno una volta al giorno, un MIG o un elicottero passa minaccioso sopra i tetti delle case. Nei giorni peggiori, invece, i bombardamenti durano anche 4 – 5 ore, con i Jet che si alternano. Mohamed ha 7 anni e lavora con il padre in un piccolo negozio di alimenti. Stanno pulendo quando metto piede nel loro piccolo negozio. “Ho paura – racconta – ieri ero seduto qui quando ho visto la gente in strada correre. Saranno state le 4 del pomeriggio. Io e mio padre siamo usciti e abbiamo visto l’aereo che puntava dritto verso questa parte della città”. Ci vogliono pochi secondi per capire se la sorte è dalla tua parte o meno. “Lo abbiamo visto scendere veloce – continua il piccolo – quasi fino a toccare i tetti dei palazzi e poi abbiamo visto la bomba uscire da sotto”. Se la sono cavata con qualche vetro rotto, una decina di bottiglie d’olio spaccate e tutti i viveri del negozio sparpagliati a terra. Ma la palazzina di tre piani 50 metri dietro si è accartocciata su se stessa. Quattro donne morte e una decina di feriti: tutti civili.

Stiamo camminando sopra la polvere ed i detriti dell’abitazione quando le urla si fanno insistenti. In pochi secondi la folla sul marciapiede di fronte all’abitazione si dilegua. L’isteria generale prende il sopravvento. Sono passate meno di 24 ore dall’ultimo raid e un altro MIG è di nuovo sopra la città. Per qualche minuto gira alto nel cielo, poi, quando l’obiettivo è nel mirino punta dritto a terra. Anche correre diventa inutile. L’aereo si avvicina quasi come se stesse precipitando e quando riprende quota il boato scuote Al Bab. Un anziano signore ci fa cenno di entrare nel suo negozio. Appena dentro abbassa le saracinesche e ci indica di seguirlo. È un palazzo di 5 piani con uno scantinato abbastanza grande da poter ospitare sei famiglie. Trentacinque persone stipate come bestiame. Da due mesi dormono lì. Sulla sinistra donne e bambini. Sulla destra gli uomini. In mezzo una tenda per dividere i sessi. Fuori, intanto, si sentono altre due esplosioni. E le sirene delle ambulanze che cominciano a fischiare. Una anziana signora urla e piange imprecando contro Assad. “Ci vogliono uccidere tutti”, mi dice Ahmad, “ogni volta che mettiamo la testa fuori da questo posto non sappiamo se torneremo a casa vivi”. Ma di fuggire, nonostante il confine turco sia a meno di 60 chilometri non ne vuole sapere. Perché Ahmad è un attivista. Con la sua videocamera documenta tutto quello che succede ad Al Bab. E accetta di portarmi in giro a vedere i “danni collaterali” del raid.

Le strade sono deserte. L’aereo ha colpito una casa in un quartiere nelle parte Sud della città. Ribelli e ambulanze sono già arrivati sul posto ma ancora non hanno iniziato a cercare i corpi. Mi invitano a rimanere con loro nascosto sotto la tettoia di una casa vicino. Una protezione psicologica più che fisica. “L’aereo tornerà a sparare”, mi spiega uno di loro. È proprio così. Il MIG torna, spara con la potente mitragliatrice per qualche minuto e poi se ne va, indifferente.

Dopo oltre un’ora il primo corpo senza vita di una bambina viene estratto dalle macerie. Descrivere come è ridotto è quasi impossibile. I presenti urlano “Allah Akbar”, caricano il corpo su un pick up. Ma nella tragedia c’è anche qualcosa di positivo. Due ragazzi giovanissimi appaiono dalla strada laterale piena di detriti. Hanno la faccia e le braccia insanguinati, il corpo pieno di polvere, ma sono vivi. Si trovavano nella casa accanto. L’onda d’urto dell’esplosione ha distrutto il muro della camera dove erano nascosti che gli è crollato addosso. Li seguo seduto sull’ambulanza fino ad una casa che è stata allestita da ospedale. I dottori sono diffidenti, hanno paura degli stranieri e non lasciano entrare nessuno. Mentre aspetto fuori arrivano altri 12 feriti. Vengono portati dentro la “casa ospedale” tra le grida di chi sta fuori. I morti alla fine della giornata sono sette. Tutti civili.

È passata un’altra giornata. Quando il sole se ne va i giornalisti lasciano la città. I civili siriani che non possono o non vogliono sono ancora lì, consapevoli che presto o tardi un’altro aereo tornerà e saranno costretti a guardare il solito film.

Fonte: www.unimondo.org
23 Settembre 2012

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