All’armi!
La redazione
Codice di condotta sull’export di armi: in Europa lo vuole solo il Parlamento. Il quadro tracciato da Vittorio Agnoletto, Eurodeputato Prc/Sinistra europea.
8 giugno 1998: il Consiglio dell'Unione Europea adotta il Codice di condotta dell'UE per le esportazioni di armi.
I ministri degli Esteri dell'Unione (allora, per l'Italia rivestiva tale ruolo Lamberto Dini) giunsero a un accordo politico che si basava sui criteri comuni relativi a questo business precedentemente adottati e risalenti in particolare ai Consigli Europei di Lussemburgo del 1991 e a quello di Lisbona del 1992.
Il Consiglio sancì nel 1998 anche l'impegno a valutare ogni anno l'attuazione del suddetto codice.
Che cosa dice, dunque, questo testo? Definisce otto criteri:
– rispetto da parte degli Stati membri delle sanzioni decretate dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, di quelle decretate dalla Comunità Europea, degli accordi sulla non proliferazione e di tutti gli altri obblighi internazionali;
– verifica che siano rispettati i diritti umani nel paese di destinazione finale;
– verifica della situazione interna al paese di destinazione finale, in particolare sull'esistenza di un sistema democratico;
– mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità regionali;
– garanzia per la sicurezza nazionale degli Stati membri e dei paesi alleati;
– comportamento “corretto” del paese acquirente nei confronti della comunità internazionale;
– garanzie che le armi non siano destinate a obiettivi differenti da quelli dichiarati all'interno del paese acquirente o riesportate verso paesi colpiti da sanzioni internazionali che prevedano l'embargo della vendita delle armi;
– compatibilità delle esportazioni di armi con le capacità tecniche ed economiche del paese acquirente.
UNA RISOLUZIONE STORICA
A fianco di tali principi-guida, vennero stabilite delle misure operative abbastanza rigorose, mirate soprattutto alla circolazione delle informazioni tra i diversi Stati rispetto al rifiuto di trasferire un'attrezzatura militare appunto perché in violazione del Codice sottoscritto in seno all'UE.
Un ottimo testo, forse un po' troppo vago, ma in ogni caso decisamente condivisibile e politicamente sostenibile. Ma con una pecca sostanziale: il Codice non è mai divenuto uno strumento giuridicamente vincolante e sanzionatorio. Per esserlo, il Consiglio avrebbe dovuto adottare una posizione comune a livello politico, che risulta invece bloccata dal 2005. Il 30 giugno di quell'anno, infatti, il gruppo di lavoro del Consiglio che si occupa di esportazioni di armi, il COARM, aveva convenuto la conversione del codice in posizione comune. Sembra che la decisione sia stata bloccata al livello successivo dell'iter decisionale, in seno al COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti, costituito dagli ambasciatori degli Stati membri presso l'Unione Europea, che assiste il Consiglio dell'Unione Europea, trattando i dossier, cioè proposte e progetti di atti presentati dalla Commissione, nella fase di prenegoziato).
Per farla breve, il Consiglio non è mai riuscito a far suo quel testo.
È per questo che nell'ultima sessione plenaria del Parlamento Europeo, svoltasi il 3 e 4 dicembre, l'emiciclo di Bruxelles ha votato una risoluzione nella quale critica “l'attuale stallo politico” riguardo a questa situazione. È stato un voto importante e trasversale, sostenuto dalla grande maggioranza dei gruppi politici, con 562 voti favorevoli, 37 contrari e 20 astenuti. Non è la prima volta che l'Europarlamento si pronuncia apertamente contro questa grave impasse: a marzo del 2008 denunciammo come “la mancanza di volontà politica di trasformare il Codice in una posizione comune” fosse “in contraddizione con il ruolo leader dell'Unione Europea e dei suoi Stati membri nel promuovere strumenti giuridici volti a controllare tutti i trasferimenti internazionali di armi, pubblici e privati, in particolare il trattato sul commercio di armi”.
La situazione, dunque, è fin troppo chiara: da una parte vi è il Parlamento, espressione dei cittadini, unica rappresentanza diretta del volere degli elettori, che chiede meccanismi di controllo severi, in nome del rispetto dei diritti umani; dall'altra il Consiglio, che rappresenta invece i governi degli Stati membri che non riescono a mettersi d'accordo. È evidente e noto quale sia il peso specifico delle esportazioni di armi per i paesi europei. Solo per citare qualche dato, nel 2007 l'Italia ha fornito armi agli Emirati Arabi Uniti per un valore pari a 205 milioni di euro, al Pakistan per oltre 470 milioni di autorizzazioni – ovvero i via libera alle esportazioni di armi avallati dai ministeri della Difesa europei e non sempre realizzatesi o realizzatesi negli anni successivi – e all'India per un importo di 39 milioni. Questi sono solo alcuni dei paesi che hanno importato armi dall'Italia; in totale, nel 2007, l'esportazione di armamenti italiani ha raggiunto la quota record di 2,4 miliardi di euro. Risale poi allo scorso aprile la denuncia di Amnesty international a proposito di oltre tre milioni di euro di armi italiane esportate non si sa a chi in Afghanistan.
LE ESPORTAZIONI
Le esportazioni dei paesi dell'Unione Europea sono in costante aumento da anni. Nel 2006 la Germania ha gestito un business da 3,8 miliardi, l'Olanda e il Regno Unito pari a un miliardo.
La verità è che questo stallo è collegato alla discussione sulla revoca dell'embargo sulle armi nei confronti della Cina, imposto dall'UE dopo la strage di piazza Tienanmen del 1989. Alcuni Stati membri, infatti, vincolerebbero il sì alla conversione del codice in un testo cogente ai propri interessi bilaterali nell'abolizione dell'embargo imposto a Pechino. Non si tratta di illazioni, bensì di una realtà segnalata anche dall'eurodeputato dei Verdi Raül Romeva i Rueva, che, come membro della Commissione Esteri del Parlamento Europeo, si occupa ogni anno di redigere la relazione sul rapporto annuale relativo al Codice di condotta.
Fece scalpore, a questo proposito, ormai due anni fa, la presa di posizione di Prodi, che si disse favorevole a rimuovere l'embargo cinese. Dello stesso parere era ed è il centrodestra guidato da Berlusconi. Ma il Parlamento Europeo già nel 2004 confermò questa misura e riteniamo ancor'oggi che tale provvedimento non debba essere revocato finchè la Cina non farà notevoli passi avanti in materia di rispetto dei diritti umani, delle libertà civili, sociali e politiche dei suoi cittadini. Ciò detto, le due questioni dovrebbero essere assolutamente scisse: barattare gli affari (e i diritti del popolo cinese) con un documento così importante come è il Codice va contro ogni logica e ogni etica.
E ora, che fare? La risoluzione votata a dicembre dall'Europarlamento è una buona notizia, un passo avanti, un segnale di speranza salutato con favore anche dalle ONG europee. Come deputati continueremo a stare “col fiato sul collo” del Consiglio e della Presidenza di turno dell'UE perché diano seguito alle richieste contenute nella risoluzione. Alla società civile il compito, non meno arduo, di far sapere che Bruxelles ha espresso con forza il suo parere, di fare pressione sui governi nazionali affinchè accolgano la posizione del Parlamento UE e firmino, in sede di Consiglio, il testo che trasformerebbe un buon strumento in un'efficace chiave di volta per regolamentare il commercio delle armi nel mondo. Dobbiamo continuare a lavorare, insieme, per impedire che i fucili, le pistole, i carri armati e le bombe prodotti nelle industrie europee vadano ad alimentare conflitti e guerre nei paesi poveri, finiscano nelle mani di chi li usa per ammazzare civili e compiere ogni sorta di abuso e violenza verso popolazioni inermi.
Sarebbe il modo ideale per celebrare non solo a parole il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, nel cui preambolo si legge che “…la violazione e il disprezzo dei diritti umani hanno portato a forme di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità; che è indispensabile proteggere i diritti umani con norme giuridiche”.
Fonte: Mosaico di pace
febbraio 2009