Albanese: il caso sollevato alla CIG apre nuova era tra Nord e Sud del mondo


La redazione


La relatrice speciale Francesca Albanese parla dell’accusa di genocidio a Gaza da parte del Sudafrica e della lotta di potere in atto nell’arena legale.


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Francesca Albanese ad Assisi, in occasione dell’incontro dei costruttori e delle costruttrici di pace e della Marcia della Pace del 10 dicembre 2023 – Foto di Roberto Brancolini

 

“Il caso alla Corte Internazionale di Giustizia apre una nuova era tra il Nord e il Sud del mondo”, afferma l’esperta delle Nazioni Unite.

La relatrice speciale Francesca Albanese parla dell’accusa di genocidio a Gaza da parte del Sudafrica e della lotta di potere in atto nell’arena legale.

Di Alba Nabulsi 23 gennaio 2024

 

Da quando ha assunto il ruolo di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati nel 2022 Francesca Albanese ha denunciato con forza le violazioni dei diritti umani e ha sostenuto a gran voce la protezione dei palestinesi secondo il diritto internazionale. Due settimane fa, la posta in gioco del suo mandato si è alzata ulteriormente, con il Sudafrica che ha presentato alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) una causa storica in cui si accusa Israele di aver commesso un genocidio durante la guerra in corso contro la Striscia di Gaza.

I rappresentanti di entrambi gli Stati hanno esposto le loro argomentazioni legali all’Aia l’11 e il 12 gennaio, in udienze che sono state seguite in tutto il mondo con grande attesa. Sebbene sia probabile che la Corte impiegherà diversi anni per giungere a una conclusione sulla questione più ampia della violazione della Convenzione sul genocidio da parte di Israele, si prevede che si pronuncerà sulle misure provvisorie richieste dal Sudafrica, compresa la questione del cessate il fuoco, entro poche settimane.

Albanese – giurista e studiosa di diritto internazionale, nonché prima donna ad essere nominata al suo attuale incarico presso le Nazioni Unite – ha naturalmente seguito molto da vicino il procedimento della Corte Internazionale di Giustizia.

All’indomani delle udienze, è stata intervistata dal Magazine +972 per comprendere questo momento cruciale nella storia di Israele-Palestina, le cui ripercussioni si fanno sentire in tutto il mondo e, in particolare, nel Sud globale.

L’autrice ha parlato delle sue prime reazioni alle udienze, della riluttanza dell’Europa a riflettere sul suo passato coloniale e genocida e del significato di una lotta di potere internazionale che si svolge nell’arena legale. La conversazione è stata modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza.

Qual è esattamente il mandato della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) rispetto alla Corte Penale Internazionale (CPI) e come entra in gioco la Convenzione sul genocidio?

La Corte Penale Internazionale (CPI) è un tribunale concepito per chiamare a rispondere i singoli autori di efferati crimini internazionali, ovvero crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di aggressione. Non è un organo delle Nazioni Unite, ma è stato istituito nel 1998 con lo Statuto di Roma.

La Corte Internazionale di Giustizia (CIG), invece, è uno dei sei organi ufficiali dell’ONU e funge da organo giudiziario primario. Il suo ruolo è quello di risolvere le controversie legali che sorgono tra gli Stati, nonché di fornire pareri consultivi su questioni legali ad essa sottoposte da enti come l’Assemblea generale o il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre i suoi pareri consultivi non sono vincolanti, le sue decisioni relative a controversie legali, come quella attuale su Gaza, sono vincolanti.

La richiesta sudafricana è stata presentata nell’ambito della Convenzione sul Genocidio del 1948, sulla quale la CIG ha giurisdizione. Sia il Sudafrica che Israele hanno firmato e ratificato la Convenzione e Pretoria ha invocato i propri diritti e obblighi per evitare il genocidio e salvaguardare i palestinesi di Gaza dall’annientamento.
La Convenzione impone agli Stati membri un doppio obbligo: in primo luogo, prevenire il genocidio; in secondo luogo, punirlo una volta che si è verificato. Pertanto, in base a questo trattato, gli Stati sono tenuti ad assicurare alla giustizia un altro Stato quando c’è il rischio che quest’ultimo stia commettendo un genocidio o non sia riuscito a prevenirlo. Gli Stati sono obbligati a cooperare nel perseguimento della giustizia.

Alla luce del numero senza precedenti di vittime palestinesi nella guerra israeliana in corso a Gaza; delle dichiarazioni scioccanti di funzionari governativi e militari israeliani e di membri del parlamento; dell’uso di cibo, acqua e medicinali come strumento di guerra per affamare l’intera popolazione e lasciarla morire e dei molteplici attacchi indiscriminati contro i civili, i rifugi delle Nazioni Unite e gli ospedali, il Sudafrica ha ritenuto che vi fossero motivi sufficienti per ritenere che Israele stia commettendo un genocidio contro il popolo palestinese a Gaza.

Questo processo si distingue da un altro caso in corso riguardante i territori occupati, che è stato portato davanti alla CIG dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2022: la richiesta di un parere consultivo sulla legalità dell’occupazione. Sebbene questo non sia giuridicamente vincolante per definizione, serve come precedente guida nel diritto internazionale. L’udienza pubblica è prevista per il 19 febbraio, dopo la presentazione di relazioni scritte da parte di numerosi Stati.

Come può intervenire la Corte? Cosa accadrebbe se accettasse l’affermazione del Sudafrica secondo cui Israele sta commettendo un genocidio?

La CIG ha la possibilità di ordinare misure provvisorie per fermare il genocidio in corso. Queste sentenze sono vincolanti e gli Stati sono tenuti a rispettarle.

Un cessate il fuoco immediato, o cessazione delle ostilità, è la principale misura provvisoria richiesta dal Sudafrica. In uno scenario del genere, le nazioni e i loro governi dovrebbero rispondere facendo pressione su Israele affinché la rispetti ed essere pronti a ricorrere all’imposizione di sanzioni economiche, diplomatiche e politiche su Israele in caso di mancata osservanza.

Sebbene la soglia per definire il genocidio per le misure provvisorie sia bassa, provare che l’intento sia quello di distruggere un gruppo in tutto o in parte (dolus specialis) rimane impegnativo. È necessaria un’analisi legale più approfondita della condotta, della capacità e dell’intento, in linea con la Convenzione sul genocidio.

La nostra storia recente sottolinea che l’esibizione palese della forza militare è controproducente quando si cerca di proteggere il diritto all’esistenza delle comunità indigene. Non apre mai la strada alla pace e alla stabilità. In questo senso, la Corte ha il potenziale per fare la storia. Al di là dell’importante ruolo della Corte, non riuscire a ripristinare la pace e la stabilità nell’interesse sia dei palestinesi che degli israeliani, avrà ripercussioni al di là delle questioni di diritto internazionale, riecheggiando un fallimento per l’intera umanità.

Quali azioni ha intrapreso la Corte in casi simili in passato?

Ci sono un paio di esempi rilevanti. Nel caso in corso tra Russia e Ucraina, la Corte Internazionale di Giustizia ha già indicato nelle sue misure provvisorie che la Russia “deve prontamente cessare” le operazioni militari iniziate il 24 febbraio 2022 nel territorio dell’Ucraina”. Tuttavia, la Russia ha contestato questa direttiva, presentando “obiezioni preliminari” che mettono in discussione la giurisdizione della Corte e l’ammissibilità della domanda.

Anche il Gambia ha presentato una causa alla CIG nel 2019, sostenendo che il Myanmar non ha adempiuto agli obblighi previsti dalla Convenzione sul Genocidio nei confronti della popolazione Rohingya nello Stato di Rakhine. La CIG ha emesso un ordine di misure provvisorie nel 2020, intimando al Myanmar di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire gli atti definiti nella Convenzione sul genocidio. Ciò includeva la garanzia che le sue forze armate e qualsiasi unità armata irregolare si astenessero dal commettere tali atti. Inoltre, la Corte ha incaricato il Myanmar di “adottare misure efficaci per prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove” relative al procedimento della CIG e di presentare relazioni periodiche che illustrino le misure adottate per conformarsi all’ordine.

Qual è stata la sua reazione iniziale alle udienze dell’11 e 12 gennaio?

I discorsi del team legale sudafricano sono stati convincenti, cercando di stabilire con serietà l’intento del governo e dell’esercito israeliano di commettere un genocidio e sostenendo le loro argomentazioni con prove convincenti. Hanno sottolineato che la condotta di Israele a Gaza è parte integrante di una violenza sistemica, non una serie di incidenti scollegati o isolati, fornendo una prospettiva completa sull’enormità dell’atrocità in corso.

L’impressione che ho avuto della difesa israeliana è che non sia stata in grado di negare o confutare le accuse, fornendo solo tentativi minimi e poco convincenti di giustificazione. Sono apparsi impreparati ad affrontare l’ampiezza delle accuse e hanno faticato a montare una difesa solida, spesso evitando le prove critiche fornite dal team legale sudafricano – forse non abituati a essere sottoposti a un tale esame, e anche pressati dal tempo.

Ciò che mi ha colpito maggiormente è stato l’uso distorto che Israele ha fatto del diritto internazionale umanitario (DIU). Le argomentazioni difensive sono state formulate con il linguaggio del diritto internazionale umanitario, senza affrontare le questioni specifiche – gli ordini di evacuazione di massa presentati come “avvertimenti”, la consapevolezza di morire di fame e l’epidemia di malattie infettive – e spesso citando gli “scudi umani” come giustificazione per qualsiasi operazione militare, indipendentemente dall’obiettivo. Hanno sostenuto che le morti di civili a Gaza potevano essere attribuite solo ad Hamas, trasformando in definitiva la popolazione in un obiettivo legittimo.

Il Sudafrica e i Paesi che sostengono la sua iniziativa hanno dimostrato coraggio, sia etico che politico, nello sfidare Israele e i molti Paesi occidentali che lo sostengono con forza, nonostante la catastrofe apocalittica che si è creata a Gaza. È per questo che la solidarietà deve rafforzarsi tra i Paesi che hanno sostenuto il Sudafrica, perché l’unità può mitigare l’impatto di un potenziale contraccolpo, che potrebbe effettivamente avere ripercussioni politiche ed economiche.

Spero vivamente che la Corte riconosca la necessità di porre fine alle ostilità. Anche se i palestinesi non fanno parte del procedimento, spero che tutte le parti in guerra rispettino la decisione della Corte. Sebbene il mio lavoro come esperta indipendente delle Nazioni Unite, insieme a quello di altri Relatori speciali, sia stato fortemente utilizzato dagli avvocati sudafricani, vorrei che il loro appello alla giustizia fosse ascoltato anche dai Paesi occidentali.

Come europea, spero in particolare che l’Europa prenda posizione e dimostri il suo impegno nei confronti del diritto internazionale e dei diritti umani, altrimenti il ruolo del diritto internazionale sarà compromesso in modo più critico e irrimediabile. Il diritto può apparire inefficace senza un’attuazione politica, e la politica priva di vincoli giuridici può rapidamente degenerare in un comportamento criminale.

Come spiega il silenzio dei Paesi europei sul tema del genocidio, che conoscono molto bene per la loro storia?

In un recente dibattito a cui ho partecipato, il dottor Omar Barghouti, cofondatore del movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” ha affermato che in Europa si percepisce l’impatto duraturo di 500 anni di colonialismo. La mentalità europea è stata modellata in modo indelebile dalle ramificazioni del colonialismo e dall’eredità storica ad esso associata. Questa impronta può concretizzarsi in una forma sottile di razzismo interiorizzato. Di conseguenza, gli europei, come le loro controparti in altre nazioni occidentali, possono mostrare un pregiudizio discernibile dalla loro empatia.

In seguito agli eventi del 7 ottobre, si è diffuso un senso collettivo di shock e orrore per la tragica perdita di vite civili in Israele, la brutale violenza inflitta agli israeliani e la presa di ostaggi. Ho condannato questi episodi come crimini di guerra e ho sostenuto che questi atti dovevano essere indagati, perseguiti e i loro autori consegnati alla giustizia. Comprensibilmente, c’è stata una reazione giusta e compassionevole nei confronti del popolo israeliano.

Al contrario, sembra esserci una desensibilizzazione nei confronti delle perdite palestinesi – anche ora che quasi 24.000 palestinesi, per lo più bambini, sono sepolti in fosse comuni o lasciati in decomposizione nelle strade, mentre circa 7.000 sono irreperibili e probabilmente sono morti sotto le macerie. L’impatto che tutto ciò avrà sui palestinesi per le generazioni a venire, su quei bambini che vediamo agitarsi terrorizzati sui letti e sui pavimenti degli ospedali, feriti o mutilati e spesso orfani, senza alcun parente che si prenda cura di loro, è inconcepibile. Pur condannando inequivocabilmente la violenza contro i civili, una posizione chiaramente delineata nel diritto internazionale, si assiste a una normalizzazione inquietante della sofferenza della popolazione palestinese.

Inoltre, la tragica storia che ha colpito il popolo ebraico nel corso dei secoli rende difficile concepire che uno Stato fondato e abitato da sopravvissuti a un genocidio possa oggi essere coinvolto in una simile violenza e condotta criminale. Tuttavia, è fondamentale riconoscere che questo sentimento è emotivo piuttosto che logico. Comprendere la natura e gli schemi dei crimini commessi ci permette di anticipare il loro verificarsi e di lavorare per la loro prevenzione. Ci credo davvero per la sicurezza e il benessere a lungo termine di israeliani e palestinesi.

Indubbiamente, questa situazione ha implicazioni dirette per il diritto internazionale e ha un significato profondo nel mettere in discussione la rappresentazione di alcuni attori – in questo caso i palestinesi, come altri popoli del Sud globale – tradizionalmente considerati marginali e subalterni. Richiede un esame approfondito della complessa interazione tra retaggi storici, pregiudizi empatici e l’imperativo di affrontare le gravi violazioni dei diritti umani su scala globale. Ancora una volta, nell’interesse di entrambi e con la sacralità della vita di israeliani e palestinesi nel cuore.

Il Sudafrica sta forse aprendo la strada alla definizione di un nuovo capitolo per il Sud globale, per ottenere un potere nell’arena internazionale dopo secoli di colonialismo e apartheid?

L’azione del Sudafrica contro Israele sembra aver aperto una nuova era nelle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo e l’impatto simbolico è profondo. Vedere illustri esperti legali sudafricani e irlandesi difendere una popolazione che sta ancora sopportando il colonialismo dei coloni e l’apartheid, come un tempo il Sudafrica, è stato profondamente commovente.

Il discorso si è allargato oltre l’esperienza palestinese del genocidio, facendo luce su genocidi storicamente negati, come il genocidio Herero e Namaqua che la Germania ha commesso in Namibia solo pochi decenni prima dell’Olocausto in Europa. L’esposizione sta stimolando una conversazione senza precedenti e più ampia tra il pubblico in generale.

La coraggiosa presa di posizione del Sudafrica, ora seguita da numerosi Paesi, è straordinariamente potente. Invia un chiaro messaggio all’Occidente, dichiarando: “Non abbiamo più paura”. È fondamentale riconoscere la necessità di reintrodurre il rispetto del diritto internazionale nella narrazione e riconoscere che la rappresentazione del mondo come polarizzato tra “virtuosi” e “malvagi” – o peggio, “civilizzati” e “incivili” – non è più convincente. Il panorama geopolitico del futuro è molto più intricato, con il Sud globale che reclama il suo posto a tavola.

Ciò a cui stiamo assistendo va oltre la questione specifica del genocidio in atto a Gaza; simboleggia l’opposizione al colonialismo, portando avanti la necessità di confrontarsi con la storia. Non è una coincidenza che in questi giorni si cominci a parlare del genocidio degli Herero. Il caso avviato dal Sudafrica ha il potere di incarnare l’elevazione delle voci oppresse e dà un barlume di speranza a coloro le cui vite sono sospese tra la sopravvivenza e l’abisso.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati.

Alba Nabulsi è una giornalista, educatrice e traduttrice italo-palestinese con sede a Padova. Ha lavorato come ricercatrice politica e consulente per diversi istituti pubblici e privati (Università di Boston, IUAV di Venezia, Università di Padova). Fondatrice del collettivo Zaituna, promuove la cultura palestinese e la consapevolezza politica attraverso la cultura. Si occupa di postcolonialismo, questioni di genere e sviluppo urbano in SWANA e in Europa. Instagram: @nabulsi_girl_in_italy.

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