Al gran bazar dell’atomica


Alberto Negri


Se Al Qaeda dovesse mettere le mani sul nucleare, per il mondo “sarebbe una catastrofe”. E’ il monito di Obama al summit sulla sicurezza nucleare.


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Al gran bazar dell'atomica

Se ci fosse una crisi grave, una rivolta islamica, oppure un ammutinamento di militari integralisti contro il presidente Asif Alì Zardari, il Pakistan permetterebbe agli americani di accedere al suo arsenale atomico? Sono domande come queste che sorgono quando il presidente Obama evoca l'ipotesi che al-Qaeda possa impadronirsi di armi nucleari. In un mondo di società deboli, instabili e armate, con arsenali vulnerabili, il bazar atomico come lo ha chiamato in un libro famoso il giornalista americano William Lagenwiesch, oggi sembra un mercato aperto a tutti: agli stati che aspirano a diventare superpotenze, come l'Iran o la Corea del Nord, ma anche a gruppi islamici e movimenti terroristici che potrebbero diventare protagonisti di un nuovo tenebroso ricatto con armi di distruzione di massa.

Tra gli strateghi dell'estremismo islamico Osama bin Laden fu il primo nel '98 ad affermare che procurarsi il nucleare era un «obbligo religioso» e che un giorno avrebbe potuto creare «un'Hiroshima americana». Queste minacce dopo l'11 settembre diventarono una delle ossessioni degli Stati Uniti. Bin Laden allora calcò la mano. Nell'ottobre del 2001, intervistato in clandestinità dal giornalista pakistano Hamid Mir, minacciava su Dawn, quotidiano in lingua inglese, di usare ordigni atomici contro l'Occidente. Curiosamente nella versione in urdu della stessa intervista i riferimenti al nucleare erano scomparsi: la censura del Pakistan, che l'atomica l'aveva da un pezzo, era intervenuta per allontanare pericolosi accostamenti.

Ma Osama Bin Laden era già penetrato nell'establishment della ricerca nucleare pachistana. Americani e inglesi misero alle strette il generale Musharraf che con riluttanza aveva dato il suo appoggio alla guerra afghana. Fu così che vennero arrestati due scienziati, Mashiruddin Mahamoud e Abdul Majid, che avevano avuto incontri con Osama e il suo vice, Ayman al Zawahiri. Mahamoud, pittoresco personaggio che si diletta di cosmologia, ammetterà in seguito di aver partecipato a riunioni anche con il Mullah Omar. I due fisici facevano parte del programma di Abdul Qadir Khan, il padre dell'atomica pachistana, che dirigeva una rete clandestina per l'acquisto e la vendita di componenti nucleari: tra i suoi clienti Iran, Corea del Nord, Libia. Ma anche paesi considerati moderati come l'Egitto, la Malesia, l'Algeria e forse anche l'Arabia Saudita, la Turchia e il Brasile.

Il caso di Qadir Khan, che oggi vive alla periferia di Islamabad, ha rivelato come l'atomica è diventata un'arma "popolare". Dopo la fine della guerra fredda e dell'Urss si è creato una mercato che ha reso molto più facili gli approvvigionamenti di uranio, l'accesso alle tecnologie, la circolazione di scienziati e tecnici. Anzi, il nucleare è diventato conveniente soprattutto per i più poveri: permette anche ai regimi emarginati come l'Iran o la Corea di soddisfare le loro ambizioni senza andare in rovina. E se l'obiettivo è intimidire, o farsi rispettare, non esiste sistema più rapido e accessibile di questo che ha segnato l'ascesa di un nuovo proletariato atomico: Abdul Qadir è stato un esempio clamoroso di proliferazione su scala internazionale alla portata di tutti, o quasi.

Ma quale atomica potrebbero avere gruppi come al-Qaeda? Qualche tempo fa venne pubblicata la notizia che la rete di Bin Laden si era procurata due valigette con armi nucleari. In realtà queste valigette, di cui sono circolate persino le foto, non sono alla portata di tutti. Forse le posseggono soltanto potenze come Stati Uniti e Russia: per funzionare richiedono un apparato di manutenzione sofisticato. Più una bomba atomica viene miniaturizzata e più di frequente deve essere sostituito il cuore fissile dell'ordigno, cioè il plutonio o l'uranio, un'operazione che richiede personale, laboratori e sistemi di trasporto fuori portata non solo di al-Qaeda ma anche di una media potenza.

La minaccia di Bin Laden si chiama "bomba sporca". Si tratta di un ordigno che utilizza materiali di scarto nucleari oppure sostanze altamente radioattive come il cobalto: per procurarsele non serve avere  accesso a impianti atomici, bastano anche laboratori che sviluppano tecnologie oncologiche. La spazzatura nucleare può anche provenire da fabbriche per l'uranio arricchito di ex repubbliche sovietiche come Kazakhstan o Uzbekistan. L'atomica sporca se fatta esplodere può contaminare e rendere inabitabile una zona per anni. Ma se è relativamente facile procurarsi i materiali radioattivi, è molto difficile estrarli e stoccarli. Nel '94 in Brasile – l'unico caso conosciuto – furono rubate capsule di cobalto per fabbricare la dirty bomb e contrabbandate in cilindri di piombo: ci furono dieci morti e centomila contaminati.

Dal vertice di Washington arriva un messaggio inquietante: viviamo una sorta di paradosso dove grandi potenze e leader mondiali hanno arsenali che non possono usare, tanto da apparire più un fardello che una risorsa, mentre l'atomica è sempre meno costosa rispetto agli standard del passato. Per le bombe di Hiroshima e Nagasaki lavorarono decine di migliaia di scienziati, tecnici e operai, tra i deserti e le montagne americane furono costruite intere città segrete recintate di filo spinato. Adesso neppure le sanzioni, utili soprattutto per creare dei fronti diplomatici, sembrano davvero efficaci a frenare la proliferazione. La realtà è che oggi molti possono accedere all'atomica e alcuni sono anche pronti a usarla o a minacciare di farlo.

Fonte: Il Sole 24 Ore

14 aprile 2010

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