Afrin, bombe sugli sfollati, 150mila senza cibo
Chiara Cruciati - il Manifesto
Siria. La Turchia colpisce l’ospedale e i pick up in fuga dal cantone curdo-siriano. Erdogan: «La vostra fine è vicina». Silenzio degli alleati Nato. Ankara punta alla distruzione del confederalismo democratico di Rojava
Il massacro di Afrin assume contorni ogni giorno più brutali. Alle bombe che da settimane cadono indiscriminate sopra il centro della principale città del cantone curdo-siriano, ora si aggiungono raid turchi su ospedali e sfollati, crimini che in altri contesti hanno sollevato lo sdegno della comunità internazionale.
Ieri scrivevamo di un ospedale, il principale di Afrin, già al collasso a causa dell’alto numero di feriti e degli scarsi mezzi a disposizione in una situazione di assedio e oggettivo embargo di medicinali e cibo.
Venerdì notte l’aviazione turca lo ha colpito tre volte, uccidendo almeno 16 persone, tra loro alcuni bambini e una donna incinta. Il governo di Ankara ha provato a smentire, pubblicando le immagini catturate da un drone e millantando di aver colpito una tipografia. Peccato che siano quelle stesse immagini a inchiodarlo: a essere centrato è stato l’ospedale.
Nella mattinata di ieri l’ennesima strage, odiosa: i caccia turchi hanno centrato due camioncini a bordo dei quali decine di civili scappavano dall’inferno. Le immagini, pubblicate sui social media, mostrano cadaveri, brandelli di corpi irriconoscibili e i due veicoli completamente bruciati.
Almeno 13 i morti che si aggiungono ai 47 di venerdì, ai tre civili sotterrati dalle macerie nel quartiere di Eshrefiye, ieri, ai corpi di tanti dispersi denunciati dall’Information Center di Afrin, nato per dare voce agli assediati dell’operazione «Ramo d’Ulivo». Oltre 280 i civili uccisi dal 20 gennaio.
Non c’è nemmeno tempo o modo di seppellirli: i locali sono costretti a bruciare i cadaveri per non lasciarli per strada, mentre gli sfollati che sono riusciti a uscire da Afrin raccontano di corpi lungo le vie della città, nel centro e lungo la direttrice sud-orientale, unico corridoio di fuga che la Turchia dice di aver lasciato ai civili per poi prenderli di mira mentre cercano un rifugio sicuro.
Sono decine di migliaia quelli fuggiti dalla battaglia: fonti locali parlano di 150mila sfollati verso la regione di Shehba, a sud est di Afrin, che hanno immediata necessità di aiuti umanitari. Chi può combattere resta, deciso a non abbandonare la propria città e il sogno di un’autogestione multietnica, multiconfessionale, femminista, ecologista che si era fatta realtà, un progetto politico unico nel panorama mondiale di devastazione dei diritti dei popoli ad autodeterminarsi.
Il presidente turco Erdogan si compiace della vittoria ormai vicina, ottenuta vomitando contro una popolazione civile e combattenti armati di fucili tutta la potenza di fuoco delle armi e i jet della Nato.
«Siamo vicini alla fine di Afrin. Stiamo per entrare e potremmo annunciare la buona notizia da un momento all’altro», ha detto ieri dal congresso locale dell’Akp a Mardin, mentre l’Amministrazione autonoma di Afrin lanciava un comunicato nel quale denunciava i crimini commessi dallo Stato turco: «L’esercito invasore colpisce deliberatamente cliniche e forni che forniscono servizi vitali ai civili. Decine di migliaia di residenti di Afrin sono stati costretti a fuggire, stanno affrontando un’immane tragedia. Chiediamo che le organizzazioni internazionali condannino questi barbari attacchi e aiutino le decine di migliaia di civili nel loro tragitto attraverso il deserto di Shehba. Ci sono bambini, anziani, feriti senza cibo né acqua».
Risponde l’Unicef, tramite il direttore per il Medio Oriente e il Nord Africa, Geert Cappelaere: «Non un singolo giorno negli ultimi sette anni le parti in conflitto e i paesi coinvolti hanno mostrato il minimo rispetto per il sacro principio di protezione dei bambini».
Ma a risuonare è l’assordante silenzio degli alleati Nato della Turchia, che assistono senza intervenire a una strage perpetrata con il proprio arsenale bellico e motivata solo dagli obiettivi politici di Ankara. Distruggere il confederalismo democratico di Rojava, imporre la propria presenza nel nord della Siria, tutelare quei gruppi islamisti che da anni hanno soffocato sotto la propria agenda e quella dei regimi sunniti regionali lo spirito di cambiamento dei primi mesi delle proteste di piazza del 2011.
Erdogan sa che quanto riuscirà ad archiviare oggi sarà fondamentale a definire domani la transizione politica della Siria, nella quale non ci sia spazio per una democratizzazione reale. Come quella proposta da Rojava negli ultimi anni, frutto di una teorizzazione politica volta a individuare una terza via tra socialismo e capitalismo, una forma di democrazia diretta all’interno di una nazione siriana frantumata socialmente e politicamente.
La speranza è che quella spinta resista ai colpi delle velleità neo-ottomane del presidente Erdogan, alle ragioni di Stato e alla politica di potenza degli attori globali e regionali.Da parte sua il popolo di Rojava, mostrando un’enorme capacità di resistenza, lo ribadisce: il confederalismo democratico sarà difeso comunque.