Afghanistan, la guerra che abbiamo già perso


Emanuele Giordana - Lettera22


Non solo talebani. C’è qualcosa di cui non possiamo dare la colpa a mullah Omar. Reportage da un paese che ha ormai perso la speranza e che andrà a votare perché non resta molto altro da fare.


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Afghanistan, la guerra che abbiamo già perso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fuori dall’ospedale pubblico di Pol-i-Khumri la gente si accalca facendo la fila. Lo spaccio dei medicinali è letteralmente preso d’assalto e ci si perde in un girovagare di barelle, stracci e muri scrostati. Donne col burqa stanno accucciate con in braccio mocciosi febbricitanti dal cui naso esce muco senza sosta. E non si capisce se quest’ospedale, il più grosso delle provincia di Baghlan, sia in effetti un nosocomio o un centro di raccolta sfollati. Il fatto è che in questa capitale di provincia, sotto il controllo della Nato/Isaf, la cooperazione internazionale deve aver passato la mano o investito assai poco. E visto che a un pugno di chilometri c’è un ospedale gestito dagli italiani – strutture nuove, incentivi per il personale, ordine e pulizia – la cosa fa ancora più effetto. Lungo la strada che va verso Balq e, da lì verso le lande più interne del paese dove le strade si fanno sterrate, le cose possono solo peggiorare. In alcuni villaggi c’è un pozzo comune ma in altri, lungo il serpente polveroso percorso solo da rari camion, qualche mulo e gente a piedi, non c’è nemmeno quello. Vedi allora giovinetti imberbi o donne coperte da un lacero velo azzurro che trasportano grandi taniche di plastica che la sera, a lume di candela, alimenteranno la pentola per cuocere il riso. I fuoco si fa con legna rimediata o pessimi fornelletti a kerosene all’origine di molti guai domestici.
L’Afghanistan sotto controllo occidentale non ha fatto grandi passi avanti rispetto al medioevo islamico che lo ha caratterizzato per decenni prima che il paese sprofondasse nella guerra e barattasse poi il fascino sottile ed essenziale che ancora in parte conserva e che affascinò Chatwin o gli spioni di Sua maestà britannica con una scommessa rapidamente abortita. La scommessa era stare meglio: diventare democratici, dimenticare i turbanti neri e le ferree regole di mullah Omar; avere finalmente, prima ancora della scheda elettorale, luce, acqua e magari un dottore a portata di mano. E invece no. Nemmeno cellulare e tv. Senza luce non vanno. Un sondaggio recente spiega che, per gli afgani, l’unico vero progresso percepito si chiama scuola. Secondo l’Unicef i progressi si notano eccome (anche se il tasso di alfabetizzazione tra i giovani è del 51% tra i maschi ma solo del 18 per le femmine): basta vedere come si riempiono le strade di Kabul all’ora in cui suona la campanella e le lunghe file di ragazzine, vestito nero e foulard bianco, incamminarsi verso casa sorridendo con i libri sotto braccio. Idilliaco ma, nel paesino dove ci fermiamo per una sosta, strabuzzano ancora gli occhioni – queste fanciulline che fanno lezione sotto una tenda – quando estrai una bella penna a sfera. Nelle campagne la vita è dura e spiegalo tu al contadino che è meglio coltivare il grano che l’oppio. I prezzi della farina salgono quando diventa pane ma se la vendi (succede anche in Italia) non si capisce perché (la legge della domanda-offerta) il prezzo del mediatore resta invariato o diminuisce. Mediamente in Afghanistan si muore a 43 anni, l’età in cui un europeo comincia ad apprezzare la maturità della sua esistenza. Per ogni mille bambini che nascono, 165 non arrivano a festeggiare il loro primo compleanno. E per quelli che ce la fanno, solo in tre su dieci (quattro se vivono in città) avranno da bere acqua potabile o un gabinetto decente il cui scolo non si perda a cielo aperto dietro l’angolo di casa. La luce resta un sogno. Persino a Kabul dov’è ancora razionata se non paghi una mazzetta.
A poco più di un mese dalle elezioni presidenziali, l’Afghanistan è misero come lo era durante la guerra. Forse, in certe aree, persino di più rispetto agli anni precedenti l’invasione sovietica. Non che i progressi non ci siano stati ma, prima di tutto, sono a macchia di leopardo. In secondo luogo, uno sviluppo che segue pedissequamente le indicazioni del Fondo monetario – le cui ricette sono da anni assai discutibili – non può che creare nuove sperequazioni in un mondo tradizionalmente governato da un’elite molto ristretta organizzata in micro potentati locali. I soldi, i tanti soldi entrati con l’aiuto internazionale o prodotti dalla speculazione (e dal mercato nero), hanno enormemente arricchito solo una fetta minuscola della popolazione, un dato non analizzato dal Fmi che invece raccomanda la privatizzazione delle fabbriche pubbliche e festeggia la nascita di numerose banche commerciali private.
Con che sentimento la gente andrà a votare? “Ci andremo –dice un avente diritto – che altro ci resta”? Anche questa è la guerra. La guerra giornaliera che abbiamo perso. E questa volta la colpa non possiamo darla a mullah Omar.

Fonte: Lettera22

16 luglio 2009

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