Afghanistan: aspettando il 20 agosto
Lettera22
In Afghanistan il conto alla rovescia è già cominciato. La scelta del presidente tra paura e disillusione. A seguire il colloquio con Gianandrea Gaiani.
Il conto alla rovescia è già cominciato e la clessidra del tempo che separa l'Afghanistan dal suo secondo processo elettorale per la scelta del presidente correre veloce. Ma gli intoppi non mancano. All'Afghanistan Electoral Complaints Commission, dove le Nazioni unite hanno messo il canadese Grant Kippen a supervisionare la trasparenza del processo elettorale, sono già arrivate 28mila denunce…
Dopo che la Commissione ha negato a oltre una cinquantina di concorrenti la candidatura (si corre anche per i Consigli provinciali e di diversi aspiranti venne scoperto che erano miliziani travestiti) la Aecc ora dovrà darsi da fare per garantire lo svolgimento del voto, una faccenda che non appare molto facile e per diversi motivi. Il primo riguarda la presenza dei talebani soprattutto nel Sud e nell'Est del paese ma non solo. Le loro minacce a chi andrà a votare sono ormai moneta corrente anche se fa ben sperare una tregua tra talebani e autorità della provincia di Badghis, la prima mai raggiunta e mirata proprio alle elezioni. Il secondo è che la squalificazione dei candidati legati a una qualche banda armata segnala un'evidenza stranota: la maggior parte dei politici afgani sono ex mujaheddin, signori della guerra e della terra, nuovi “khan”, signorotti tribali, che oltre al carisma del capo villaggio hanno i kalashnikov bene oliati nell'armadio, soldi e potere di pressione su candidati ed elettori. Pensare che le elezioni afgane siano solo una vicenda di equilibri etnici – lettura che ha una sua importanza ma fuorviante se la si usa come unica lente – sarebbe infatti far finta di non vedere che, come in tutti i paesi del mondo, la democrazia è anche, se non soprattutto, il frutto di una macchina ben oliata di relazioni, patronage, promesse e clientele, condita da una borsa piena di afganis.
Passeggiando per i quartieri di recente costruzione a Kabul, intere aree spianate e ricostruite a Sharenaw, Wazir Akbarkhan e Sher Poor, si capisce subito che questo povero paese non è solo un paese povero. Le nuove costruzioni, molte delle quali su aree demaniali confiscate da ex combattenti, affacciate con i loro apparati kitsch che mischiano gli stili di Dubai, Peshawar e Capitol Hill, olezzano di denaro. Sporco. E fanno quell'impressione anche i grandi centri commerciali che spuntano come funghi non si sa bene per che clienti. Denaro illecito, che viene in molti casi dalla produzione di oppio. E non è che il meccanismo non abbia a che vedere con politici e parlamentari…qualcuno dice con la stessa famiglia del presidente, presentissima sul mercato edilizio e grande possidente nelle lande pashtun del Sud dove fiorisce il fiore screziato del papavero.
Alla periferia Est di Kabul, nella palazzina dell'Independent Election Commission of Afghanistan, Zekria Barakzai ci riceve con un largo sorriso e un ottimo inglese. Snocciola i risultati del processo di iscrizione degli aventi diritto: quattro milioni e mezzo di iscritti in 252 distretti su 264. Un successo, dice indicando sulla mappa i distretti off limits: 5 nell'Helmand, 2 a Kandhar, Zabul e Ghazni, 1 a Wardak. Alle settemila stazioni di voto ci sarà, assicura, uno schieramento di protezione fatto a cerchi concentrici: nel più interno la polizia – almeno 60mila uomini – all'esterno l'esercito afgano e, oltre, la Nato. Quanto ai brogli, dopo le polemiche nate alla prima elezione esibisce un altro sorriso: tre tipi di inchiostro. Costo dell'intera operazione, un po' meno di 250 milioni di dollari. Una stretta di mano sotto la bandiera e via di nuovo sotto il sole.
Karzai sorride nelle strade con un faccione bonario sormontato dai suoi preziosi karakuli, i cappelli di astrakan che, dicono i maligni, valgono qualche migliaio di dollari (non come al bazar che te ne costano al più 20). Il presidente in carica è sicuro di farcela e la cosa è molto probabile. Si presenta in ticket con Mohammad Qasim Fahim, ex tutto (signore della guerra, capo dell'Alleanza del Nord ai tempi della cacciata dei talebani nel 2001, ministro della Difesa nel primo governo di transizione), un uomo (è appena sfuggito all'ennesimo attentato) che, si dice, Karzai dovette allontanare dal suo governo perché gli alleati occidentali lo consideravano impresentabile. Ma adesso Fahim, cui il presidente ha comunque garantito i privilegi delle più alte cariche militari, è anche del Fronte nazionale unito capeggiato dall'ex presidente Rabbani che, fino all'altro ieri, ha sparato su Karzai. La mossa è chiara assai più che per l'appartenenza etnica di Fahim, tagico. Conta invece l'etnia di Khalili, hazara sciita, il terzo uomo che si presenta in ticket con Karzai/Fahim. Khalili è l'uomo che sostitui alla testa dell'Hizb-e-Wahdat, un partito islamista sponsorizzato da Teheran, Abdul Ali Mazari, il gran capo hazara ucciso dai talebani dopo la presa di Kabul nel 1996.
Se molti danno Karzai per certo altri ritengono che invece rischi il ballottaggio, specie dopo che ha rifiutato il faccia a faccia all'americana in Tv con altri candidati (in tutto una quarantina anche se molti stanno creando cartelli per presentarne uno solo). I suoi più agguerriti avversari sono sostanzialmente due: Abdullah Abdullah, ex ministro degli Interni ed ex caporione (come Fahim) dell'Alleanza del Nord. E Ashraf Ghani, un'economista già ministro delle Finanze di Karzai con un lungo passato accademico e diversi passaggi dall'Onu alla World Bank. E' tra i pochi a non avere un passato ingombrante ma è un uomo della diaspora che può piacere all'élite colta ma che non può vantare i legami tribali di un Abdullah o di un Karzai, uomo di uno dei più potenti clan pashtun (lo stesso dei re afgani) del paese.
La scommessa dunque si giocherà soprattutto tra questi personaggi. Tra paura e forse indifferenza, certo senza la stessa passione e speranza di cinque anni fa. Le promesse elettorali, afgane e occidentali, non sono state mantenute.
Fonte: Lettera 22 e il manifesto
di Emanuele Giordana
28 luglio 2009
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CANDIDATI(E) A KABUL
C'è chi per simbolo ha scelto due lanterne, chi due penne a sfera o due pini e chi, meno prosaicamente, un'ascia. Un candidato ha scelto per simbolo…due pacchi dono (sempre due). Un altro un mazzo di spighe. Ashraf Ghani, lo sfidante numero uno di Karzai ha scelto un libro aperto, da vero intellettuale. Abdullah Abdullah, l'altro sfidante che spera nel ballottaggio, per farsi riconoscere mostra tre teiere in omaggio forse all'abitudine più tradizionale, quella della ciaikhana, il luogo dove ci si rilassa bevendo te. Karzai ha preferito una bilancia in perfetto equilibrio. Il suo probabilmente.
Erano 41 gli sfidanti regolarmente iscritti alle liste per la corsa a diventare il secondo presidente eletto dell'Afghanistan post 2001. Trentanove maschi e due femmine (che aumentano tra i vicepresidenti, 7 contro 75 maschi) anche se, proprio in questi giorni, molti stanno scegliendo di fare cartello e puntare su un solo nome o di passare la mano: è il caso di Nasrullah Arsalaye, che qualche giorno fa ha fatto sapere di aver scelto di uscire di scena in favore proprio di Abdullah Abdullah. Tutti i candidati si presentano in ticket, ossia con due aspiranti vicepresidenti. Tra chi corre vi sono personaggi di assai trista fama – come l'ex talebano mullah Rocketi – ma anche professionisti rispettati come Mirwais Yasin, il primo vice presidente della Camera bassa. Classe 1962, è tra i più giovani.
Le due candidate – la più nota è la parlamentare liberale Shahla Atta – non hanno grandi speranze ma molti fanno notare che nelle precedenti elezioni se ne presentò solo una, Massuda Jalal, e che molti contendenti puntano parecchio sul voto femminile che dovrebbe contare per quasi il 40% dell'elettorato.
Per trasparenza i candidati hanno anche mostrato contributi e spese. L'unico che lo ha fatto in dollari è stato Karzai: duemila banconote verdi.
Fonte: Lettera22
di Emanuele Giordana
28 luglio 2009
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LA GUERRA SUL TERRENO DEGLI ITALIANI
Colloquio con Gianandrea Gaiani
di Junko Terao
Martedi' 28 Luglio 2009
Quanto rischiano i nostri soldati in Afghanistan? “I rischi ci sono e lo dimostrano i fatti, anche se per ora abbiamo avuto un solo caduto su 223 internazionali dall'inizio dell'anno, il numero più alto nella storia della missione in Afghanistan”, spiega Gianandrea Gaiani, direttore di “Analisi Difesa”. “Questo non significa che la nostra area sia meno calda di altre. Lo stesso comandante Nato McChristal ha detto che c'è una resistenza talebana più fiera del previsto a Ovest, ancora di più che nel Sud, dove invece ci si aspettavano combattimenti più accaniti coi talebani. Il settore italiano è uno dei più caldi attualmente e i rischi sono dovuti al fatto che c'è un'esigenza militare occidentale – quindi anche italiana – che è quella di allargare il più possibile il controllo del territorio in vista anche delle elezioni del 20 agosto
Con le elezioni c'è un rischio escalation?
I talebani l'hanno minacciata. C'è il rischio di un aumento delle azioni terroristiche, perché il maggior controllo del territorio che esercitano le forze alleate e le truppe afgane rende sempre più difficile per i talebani mobilitare gruppi di combattimento significativi. Credo che l'offensiva ci sarà e sarà condotta per lo più attraverso kamikaze, come già si è visto in questi giorni nell'Est. Probabilmente anche su Kabul, e non a caso che le truppe italiane vicino a Kabul siano impegnate in combattimenti contro miliziani che cercano di raggiungere la capitale dal Pakistan.
Siamo attrezzati bene per continuare la missione?
I mezzi sono all'altezza della situazione, i lince – i blindati in dotazione all'esercito – si sono dimostrati resistenti. Certo è che se avessero una torretta manovrabile dall'interno probabilmente ci sarebbero meno rischi per il soldato che sta lassù. Ci vorrebbe una maggior capacità di volo: stanno arrivando altri 3 elicotteri che però non sono mai abbastanza. Con più elicotteri si limiterebbero gli spostamenti via terra limitando i rischi di attentati. Numericamente il contingente è cresciuto ed è oggi in grado di mobilitare due gruppi da combattimento: un potenziamento considerevole nelle capacità del contingente. Di fronte ad ogni caduto si riaccendono le polemiche, ma bisogna chiamare le cose col loro nome. Questa è una guerra a bassa intensità ma rimane pur sempre un conflitto. Mi pare un po' ridicolo continuare il dibattito sul restare o andarsene: abbiamo avuto 15 morti dal 2001, di questi solo 8 sotto fuoco talebano, gli altri per incidenti o infarto. E' una situazione che peggiorerà sicuramente nei prossimi mesi per poi forse trovare una soluzione.
Fonte: Lettera22