Addio Afghanistan! Ritiro dalla base simbolo
Giampaolo Cadalanu
L’ultimo contingente americano resta schierato a difesa dell’ambasciata nella zona verde di Kabul.
Non era una base militare qualsiasi, il vecchio aeroporto costruito negli anni Cinquanta dai genieri sovietici nella provincia di Parwan, a pochi chilometri dalla cittadina di Bagram, è da ieri vuoto di truppe americane.
Era la pista più grande dell’Afghanistan, quella su cui si poteva contare per far sbarcare i giganti del cielo, i Galaxy del Pentagono, gli Antonov e Ilyushin dei contractor civili, per portare tank Abrams ed elicotteri Apache. Era un biglietto da visita da grande potenza, il messaggio che Washington voleva dimostrare al mondo che la leggenda sulla “tomba degli imperi” potesse essere smentita.
Da qui l’Armata Rossa se n’era andata con la coda fra le gambe, la capacità militare dell’Urss spezzata dalla resistenza dei mujahiddin, con l’aiuto dei fondi americani e sauditi, con una robusta fornitura di missili terra aria Stinger e con la collaborazione tecnica di un giovane miliardario fondamentalista che si chiamava Osama Bin Laden.
Era la fine degli anni Ottanta, l’inizio del tramonto per le ambizioni globali del Cremlino. Quindi era giusto che lo sforzo militare dell’Occidente partisse da questa piana polverosa, a una settantina di chilometri da Kabul, in posizione strategica per tenere sotto controllo le operazioni in tutto il Paese e allo stesso tempo lontano dalle attenzioni indesiderate dei Talebani e magari anche dei giornalisti.
Perché a Bagram le truppe Usa avevano scoperto che forse la grande superiorità tecnologica dei loro apparati non bastava: per vincere serviva una maggiore disinvoltura, una spregiudicatezza di metodi che sottomettesse la resistenza degli afgani catturati.
Serviva il metodo sperimentato nell’inferno di Abu Ghraib, in Iraq, e benedetto dall’allora ministro della Difesa Donald Rumsfeld, basato su abusi e sevizie.
Altro che superiorità ideale dell’Occidente di fronte al fanatismo integralista degli studenti coranici: a smentirla ci sono le foto delle gabbie circondate di filo spinato a rasoio in cui i prigionieri venivano appesi per i polsi, pubblicate dal New York Times e rese indimenticabili dal documentario premio Oscar “Taxi to the Dark Side”, firmato dal regista Alex Gibney. A un certo punto gli hangar più nascosti di Bagram ospitavano oltre tremila persone, cioè 18 volte il numero dei detenuti di Guantanamo.
Era quasi come se la volontà degli afgani dovesse essere spezzata perché considerata una minaccia intollerabile e un avversario irriducibile per la massima superpotenza del globo. In certi casi era semplice innocenza, di poveri cristi imprigionati su denuncia falsa e interessata di signori della guerra.
Così l’addio alle piste di Bagram – e l’annuncio che ormai l’ultimo contingente con la bandiera a stelle e strisce è schierato a difesa dell’ambasciata, nella superprotetta zona verde di Kabul – in vista della deadline non ufficiale del 4 luglio è la prova definitiva: da queste parti le forze degli imperi sono costrette a cedere.
Lo dimostra l’improvvisa cancellazione di ogni progetto di nation building e l’accordo al ribasso firmato con i talebani a Doha, con gli Usa che si accontentano dell’impegno a non ospitare l’organizzazione di attentati in Occidente.
E alla fine sulla sabbia di Bagram delle ambizioni di potenza restano solo le tonnellate di mezzi inutilizzabili e attrezzature distrutte che gli afgani si contendono per rivenderle come rottami. Nel cimitero dei carri armati sovietici T-34 e T-62, vicino alla strada per Jalalabad, c’è posto.