A Hebron i giovani non riescono più a sognare


Francesca Borri


Se vuoi sapere come si vive in Terra Santa ti suggeriamo di leggere il Reportage di Francesca Borri (Yedioth Ahronoth, Israele) pubblicato da “Internazionale”.


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Forse è meglio andare uno alla volta. Così sembriamo meno pericolosi. O forse no: sembriamo più sospetti. Però la carta di identità no, non in mano, o penseranno che sia un coltello. Oddio: e poi come la tiri fuori? Penseranno che hai un coltello in tasca. Ma soprattutto: cosa stanno dicendo? Stai fermo o sparo? O stanno dicendo: Perché stai fermo? Ora sparo?

Sono solo duecento metri, e stai solo cercando di tornare a casa. Ma è così Hebron, hai l’esercito a ogni angolo, e dubbi a ogni passo. Molti soldati, si vede, hanno paura. Non importa il giubbotto antiproiettile, l’elmetto, la mitragliatrice, non importa l’aria da duri: hanno paura quanto te, sono nervosi, pronti a fare fuoco alla minima incertezza. Il minimo movimento. E poi non capisci cosa ti dicono, parlano in ebraico. E comunque gli ordini cambiano a ogni minuto. A ogni checkpoint. Chiedi quali sono, e ti rispondono: gli ordini sono io.

Trenta degli 84 palestinesi uccisi finora, in questi giorni che nessuno ancora sa come definire, forse un’intifada forse no, venivano da Hebron. Ma Hebron, in realtà, è da sempre il luogo in cui ognuno tira fuori il peggio di sé. Dagli anni settanta circa seicento coloni vivono incuneati tra 180mila palestinesi per presidiare Ma’arat HaMachpelah, le tombe dei patriarchi, che per i musulmani sono invece la moschea di Abramo.

È qui che Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Frenkel, a giugno di un anno fa, hanno chiesto un passaggio in autostop e sono finiti sequestrati e uccisi; è qui che la famiglia Dawabsha, padre madre e figlio di 18 mesi, è stata bruciata viva dentro casa, a luglio; è qui che a settembre i soldati guardavano e i coloni ridevano mentre Dia al Talameh, per mezz’ora, sanguinava a morte. È qui che quando gli uni muoiono, gli altri alzano le spalle gelidi, niente di più: e a volte cantano e ballano. Festeggiano.

È qui che non si è più umani, in questa città divisa in area H1 e H2, la prima sotto controllo palestinese, la seconda sotto controllo israeliano: una città in cui ci si dà appuntamento accanto a un numero, il checkpoint 55, il checkpoint 56, e in cui in realtà, ormai, si è un numero, perché entra solo chi è registrato.

E per strada, per queste strade deserte – perché stanno tutti rintanati in casa dietro grate di ferro e muri di cemento – non si incontrano, meri numeri anche loro, che gli osservatori della Temporary International Presence in Hebron (Tiph), chiamata a garantire il rispetto di accordi, protocolli, diritti e obblighi che nessuno, qui, più neppure ricorda quali siano: la presenza della Tiph è temporanea dal 1997.

A Hebron sembra di vivere in guerra. Ogni famiglia ha una ricetrasmittente che ogni venti, trenta minuti gracchia notizie di scontri, accoltellamenti, incidenti di ogni tipo. Nessuno si chiede chi sia il morto: tutti si chiedono quale sarà la reazione, dove sarà il morto successivo.

E questa è l’unica cosa che israeliani e palestinesi, qui, hanno in comune.

Perché se prima l’appuntamento era per la manifestazione del venerdì, all’una, dopo la preghiera, ora è tutta una sassaiola. Ora a ridosso della città vecchia, semplicemente, cammini, e a un tratto noti dei ragazzi fermi a un incrocio. A un angolo di strada. Gruppi di quattro, cinque ragazzi, la felpa con il cappuccio e nient’altro, non una bandiera, non un megafono, uno striscione, niente. Stanno fermi, così, i jeans stretti alla caviglia e le mani in tasca, magri, con un’aria da liceali, stanno fermi e guardano tutti nella stessa direzione: per nessun motivo preciso, non è successo niente di particolare. 

I passanti, via via, si fermano, magari andavano al lavoro, in banca, andavano dal barbiere, hanno con sé borse da ufficio, buste della spesa, ma ora si fermano, invece, uno a uno. Si fermano e aumentano, aumentano, aumentano fino a quando un bambino, all’improvviso, avrà sei, sette anni, non di più, un bambino minuscolo sguscia via, e corre veloce verso un checkpoint.

Corre verso una jeep, verso un filo spinato, una cosa qualsiasi, verso il più vicino segno della presenza israeliana, tira una pietra, e dietro di lui, come un’onda anomala, tutti gli altri. E per tre, quattro ore è un palleggio di gas lacrimogeni, pietre, proiettili di gomma, a volte proiettili veri, molotov, bombe sonore, una manciata di ventenni contro una manciata di soldati: mentre a decine, pochi metri più dietro, guardano, e tifano. E mentre la vita, intorno, continua.

E non solo intorno: gli scontri sono così normali, qui, così integrati nel paesaggio che un ragazzino, in mezzo, continua a friggere falafel nel suo chiosco. Quando il gas lo avvolge, va un momento a tossire in un negozio vicino, poi torna a friggere – mentre un uomo attraversa la strada con un materasso sulle spalle, un altro, accanto, spinge un carrello con un televisore. Sulla traiettoria del fuoco due spazzini, impassibili, svuotano i bidoni della spazzatura. 

Gli scontri, in realtà, non finiscono mai: si interrompono. Non si disperdono: si spostano. Due, tre ore, e si ricomincia. Con i padri che tentano inutilmente di fermare i figli. “Gli ripetiamo mille volte al giorno che non ha senso, che tiri una pietra e ti prendi un proiettile. Che non è quella la strada. Abbiamo paura. Stiamo sempre a cercarli, a telefonare, a controllare dove sono. Con chi sono.  Ma questi sono i ragazzi di Oslo: non hanno mai visto un israeliano che non sia un soldato o un colono. E poi non possiamo incatenarli”, dice Mohammed Titi, 35 anni e due figli di 14 e 12. Il teatro che ha fondato si chiama Yes, “perché se sei palestinese, ti senti sempre rispondere: No”.

E in effetti è vero che la sproporzione di forze, qui, ti è ricordata dagli F16 che ti sfrecciano in testa: ma è anche vero che nessuna città della Cisgiordania è come la città vecchia di Hebron. Con i suoi 18 checkpoint in cui vieni continuamente fermato e perquisito.

Nessuna alternativa

Capita che l’esercito ti sfondi la porta, all’alba, e ti chiuda in una stanza perché per un giorno ha bisogno di casa tua, l’accesso è vietato alle auto, devi trasportarti tutto sulle spalle, anche un’ambulanza chiamata di emergenza ha bisogno di un’autorizzazione, e a ogni rumore, a ogni gatto in giardino, di notte, sussulti, perché pensi che siano i coloni che vengono a rubarti casa. Non si esce mai tutti insieme, qui: uno rimane sempre dentro. Di guardia. E a volte l’unica, per rientrare, è passare da tetti e finestre. “Tentiamo tutti di fermare i nostri figli. Ma il problema”, dice Mohammed Titi, “è che non abbiamo nessuna alternativa da offrirgli”.

Il 77 percento dei palestinesi, qui, vive sotto la soglia di povertà.

E soprattutto, i padri non sono i soli a provare a fermare questi ragazzi. A ogni checkpoint, hai da un lato i soldati israeliani, dall’altro gli agenti in borghese dell’Autorità Nazionale Palestinese. Sono ovunque: e sono una delle ragioni di scontri e manifestazioni. Perché il problema non è solo che a Hebron sembra di vivere in un rapporto di Human rights watch. Il problema, per i palestinesi, è la totale assenza di prospettiva politica. Di un’alternativa.

Issa Amro ha 35 anni, ed è uno degli attivisti più noti, sostenitore della resistenza non violenta: parla un ottimo ebraico, ed è già stato arrestato 16 volte quest’anno, 25 l’anno scorso. “E se l’esercito non fa distinzioni, è difficile convincere i palestinesi che con razzi e coltelli non ottieni niente”, premette, parlando mentre ha venti soldati al piano di sopra a perquisirgli l’ufficio.

“Il problema è che gli accordi di Oslo non hanno segnato la fine dell’occupazione, ma la sua trasformazione: il suo subappalto all’Autorità Nazionale Palestinese. Non solo non esistono negoziati, discussioni, proposte, niente, ma siamo governati da questa cricca che pensa solo ai propri interessi”, dice Issa Amro. “Per noi sono uguali a Israele”. Ed è questo uno dei motivi della forza di Hamas, di cui Hebron è un bastione: “Non tanto perché uno creda davvero nei razzi, ma perché se non altro, Hamas non si è arresa”.

In Cisgiordania, infatti, hai bisogno di un permesso per qualsiasi cosa. Per aprire un negozio, per spostarti, o anche solo ristrutturare la cucina perché ti si è rotto un tubo. Ma soprattutto, di fatto, hai bisogno di un permesso per vivere: perché le sole opportunità di lavoro sono nel settore pubblico o in Israele. E in entrambi i casi, hai bisogno di un tesserino magnetico che viene rilasciato dall’intelligence: certifica che non sei pericoloso. “Cioè”, traduce Issa Amro, “che ti astieni da ogni attività politica”.

È quella che in tanti, qui, chiamano “la doppia occupazione”.

Tanti, però: non tutti. Perché esiste anche una terza Hebron, un’area H3: è la Hebron a cui di tutto questo non importa niente. La Hebron che sta fuori dalla città vecchia, e passo a passo, strada per strada, sta diventando come Ramallah: tutta negozi, caffè, ristoranti, vita fino a tardi. Un terzo del pil della Cisgiordania arriva da qui, da una miriade di artigiani famosi per le ceramiche, il vetro, e soprattutto il cuoio. E per ragioni legate non solo alle autorizzazioni, all’occupazione e la sua burocrazia, ma anche, più semplicemente, alla concorrenza cinese, molte imprese palestinesi lavorano con imprese israeliane. 

“Tutto questo non ha il minimo senso”, mi dice un sarto. “Non c’è alcun obiettivo. Alcun progetto. Hamas e Fatah usano gli scontri come valvola di sfogo, nient’altro, perché questi ragazzi, per una volta, possano sentirsi vivi. Agire invece di subire. Ma poi al solito: Hamas organizza una manifestazione e Fatah un’altra manifestazione, stesso giorno stessa ora, in un altro luogo”, dice. “Cercano di specularci su”.

Gli scontri veri

Perché in effetti è vero che nessuno, qui, guida gli scontri. Ma Hamas e Fatah, e soprattutto, la Jihad islamica, non sono assenti: sono solo invisibili. Stanno un passo indietro, consapevoli che niente terrorizza di più dell’idea che un arabo qualsiasi, in qualsiasi momento, indipendentemente da tutto, ti possa accoltellare.

“Anche perché così nessuno è responsabile di niente, e tutti possono profittare di tutto. E vincere gli scontri veri: gli scontri per sostituire il presidente Mahmud Abbas, che ha 81 anni ormai, e se non va via da solo, tra un po’ ci pensa dio”, dice il sarto. “Onestamente, sono stanco di tutto questo. Non so tu, ma io ho una vita sola. E non ho intenzione di sprecarla così. Penso ai miei figli, ai miei nipoti. A vivere al meglio, chiunque mi governi. Un po’ alla volta, ci abitueremo a stare insieme, israeliani e palestinesi”, dice. “Non saremo noi uomini a risolvere questo conflitto, è inutile. Sarà il tempo”.

Ha 56 anni, ed è stato l’unico a chiedermi di non citare il suo nome. Commenta amaro: “Qui è più pericoloso volere la pace che la guerra”.

Anche altri la pensano come lui. Ma più che al tempo, si affidano alla demografia. Perché mai farsi sparare, ti dicono, e non ottenere niente? Gli israeliani non vogliono i due stati? Bene: avranno uno stato unico. Ma invece di essere ebraico, un giorno sarà arabo.

Non è solo larga parte di Hebron a rimanersene in disparte: è anche larga parte della Cisgiordania. E anche di Gaza, da cui Hamas si limita ogni tanto a sparare razzi su aree disabitate: non può permettersi un’altra guerra.

Ehab Ewedat ha vent’anni, studia economia a Ramallah. Per ora non tornerà a Hebron. “È una trappola”, dice. “Gli israeliani cercano la violenza perché siamo divisi, e soprattutto, impegnati a sopravvivere. Il 30 percento è servo dell’Autorità Nazionale Palestinese, e non partecipa perché pensa solo a comprarsi un’auto nuova. Ma il 70 percento di noi non partecipa perché pensa a come comprarsi il pane. E in più, il mondo è concentrato su altro. La Siria. L’Iraq. Non siamo al centro dell’attenzione. E quindi per gli israeliani è il momento perfetto: ogni morto è la giustificazione per nuove confische, nuovi divieti. Nuovi arresti”, dice. “Ogni morto è il pretesto per impadronirsi di un altro pezzo di Hebron”.

L’unico risultato degli scontri, per ora, è la chiusura di Shuhada street. Che è il simbolo di Hebron non solo perché è, o meglio era, la sua strada principale, un tempo con decine di negozi, caffè, il municipio. È un simbolo perché è stata chiusa nel 1994, quando Baruch Goldstein ha ucciso 29 fedeli nella moschea di Abramo. “E ogni volta che succede qualcosa, l’esercito per ripristinare la sicurezza colpisce noi e basta”, dice Mofeed al Sharabati, 48 anni, uno dei pochi residenti rimasti. “Anche quando siamo noi a essere uccisi, siamo noi a essere arrestati”.

Naturalmente per i coloni, invece, il massacro da ricordare è quello del 1929, in cui furono uccisi 69 ebrei. Ormai, più che per i luoghi religiosi, le città, qui, sono simboliche per questo.

I luoghi dei massacri sono i nuovi santuari. Le nuove mete di pellegrinaggio, anche se a essere ricordati e celebrati non sono i morti: sono gli assassini.

Ognuno celebra chi uccide l’altro.

In nessuna città israeliani e palestinesi sono così lontani come qui, dove vivono gomito a gomito. Non concordano neppure su cosa sta accadendo: quelli che per gli israeliani sono accoltellamenti, per i palestinesi sono linciaggi.

Amnesty international, che in passato ha già contestato all’esercito un uso eccessivo della forza, ha esaminato il caso di Hadeel al Hashlamon, 18 anni, uccisa il 22 settembre a un checkpoint. Stava frugando nella borsa in cerca probabilmente dei documenti, ma era coperta da un niqab e non si vedevano le mani: e il soldato ha pensato che stesse per tirare fuori un coltello. Fosse anche stato un coltello, ha detto Amnesty international, avrebbero potuto disarmarla in altro modo. Senza sparare. L’esercito israeliano, in fondo, è uno dei meglio addestrati al mondo.

E certo, ci sono altri casi simili a questo, ma altri sono innegabili. Il 16 ottobre, per esempio, un uomo che si spacciava per giornalista ha assalito un soldato a Kiryat Arba. Il filmato è inequivocabile. Eppure, i palestinesi sono unanimi: gli israeliani, dicono, manipolano le immagini. Sparano, e aggiungono un coltello accanto al cadavere. Muhannad al Halabi, il ragazzo di 19 anni con il quale tutto questo è cominciato a ottobre, lo studente di giurisprudenza che ha ucciso due soldati a Gerusalemme, ha avuto una laurea onoraria post mortem.

“Credevamo fosse una generazione di vigliacchi”, dice Mousa Ajwa, professore di scienze politiche. ”E invece sono dei ragazzi coraggiosi”.

Ragazzi come mille altri.

O forse, solo disperati. Perché a vederli, nei caffè vicino all’università, nelle copisterie, sembrano come mille altri. Non vengono dalla città vecchia, che è ormai una città fantasma, vengono dalla terza Hebron. Tutti, per pagarsi l’università, si sono indebitati, come anche per comprare l’auto, il telefonino, la lavatrice: la ricchezza dei palestinesi, in Cisgiordania, è apparente, si basa sui prestiti, e nessuno, alla fine, si illude di trovare lavoro. Se non in Israele: e cioè essenzialmente come muratori. Come operai al nero.

Khalil e Khaled hanno 21 anni, studiano economia. Chiedi come passano il tempo libero, cosa offre Hebron, una città dove il 70 per cento degli abitanti ha meno di 30 anni, e non capiscono la domanda. Devo ripeterla più volte. Alla fine Khalil dice: guido il taxi. Khaled invece monta condizionatori. Non sono mai stati all’estero. Non sono mai stati al cinema. Allo stadio. Non hanno mai visto il mare. Anche Enas ha 21 anni e studia economia, ma è una ragazza: e quindi nel tempo libero rimane a casa. Cosa sogni?, chiedo. Non capisce. Mi spiego: cosa vorresti dalla vita? Riflette a lungo. Dice: un’auto.

Poi specifica: un’auto qualsiasi.

Issam ha 22 anni, studia legge e sogna di andare a Gerusalemme. Descrivimi una tua giornata, chiedo. Tipo, domani: domani cosa fai? Mi dice: vado all’università. Sto all’università. E poi… Poi torno a casa. Mi guarda: o forse accoltello un israeliano.

Gli dico: ma poi ti sparano. Mi dice: sono già morto.

22 
novembre 2015

(Articolo tratto da “Internazionale” che ringraziamo per il prezioso lavoro che sta facendo: www.internazionale.it/reportage/2015/11/22/hebron-giovani-cisgiordania)

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