Le elezioni in Israele. Meno stellette, più abiti civili


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Com’è consuetudine, le elezioni israeliane sono riuscite a sorprendere non solo gli analisti, ma anche i sondaggisti. C’è, però, un segnale nuovo: ci sono state meno stellette, meno generali, insomma.


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Com’è consuetudine, le elezioni israeliane sono riuscite a sorprendere non solo gli analisti, ma anche i sondaggisti. C’è, però, un  segnale nuovo, da comprendere fino in fondo. È che in queste elezioni ci sono state meno stellette. Meno generali, insomma. Emblematico il caso di Shaul Mofaz, in bilico dopo il tracollo del suo partito Kadima, da cui la TzipiLivnisi era staccata giusto in tempo per non essere travolta. Il partito che fu fondato dal generale Ariel Sharon potrebbe avere due seggi, e dunque Mofaz potrebbe arrivare alla Knesset, ma il quadro non cambia. Il destino di Shaul Mofaz è un destino che, di questi tempi, accomuna altre stellette: lui ex capo di stato maggiore ed ex ministro della difesa, era fino a ieri sera uno dei grandi sconfitti, così come Ehud Barak, che però aveva deciso di non partecipare alle elezioni, proprio per evitare una brutta figura.

Cosa significa? Che si è concluso il pluridecennale capitolo dei generali-premier, o dei generali-ministri o dei generali politici? Che Israele veste in giacca? Il ritratto non è così semplice, visto che il cursus honorum in divisa fa parte anche di alcuni dei protagonisti di queste ennesime elezioni anticipate israeliane. Un esempio su tutti: Naftali Bennett, l’astro nascente della destra radicale descritto come un tycoon dell’informatica, ha il grado di maggiore e ha fatto parte delle truppe speciali israeliane. Detto tutto questo, è un dato di fatto che i militari hanno meno appeal nei confronti dell’elettore e dell’elettrice di quanto abbiano avuto, per esempio, i rabbin. Come il numero due di Yesh Atid, il partito del giornalista-conduttore televisivo Yair Lapid (dalla foto, si capisce perché Lapid sia stato paragonato a George Clooney. Ha due anni in meno dell’attore americano, e gli stessi capelli brizzolati…). Il rabbino Shai Piron, poco più che cinquantenne, è l’esempio di un nuovo tipo di politico che per la prima volta entra alla Knesset. Lo definiremmo un esponente della società civile, che porta in parlamento la frattura tra laici e religiosi sempre più evidente in Israele, una frattura che Piron vorrebbe anzi colmare, distanziando se stesso dalla schiera di rabbini ed esponenti religiosi che vengono soprattutto da Gerusalemme.

Meno generali e più rabbini? Questa, è evidente, è una semplificazione giornalistica, provocatoria quanto basta per sottolineare i segnali importanti dei cambiamenti in corso in Israele, dove essere generali non vuol dire per forza essere di destra, ed essere della società civile o dell’imprenditoria (come Bennett, appunto) non vuol dire per forza avere una concezione meno conservatrice e/o radicale del futuro del Paese. Il “meno generali e più rabbini” dice, anzitutto, che il ritratto della società israeliana è profondamente cambiato rispetto all’immagine che se ne ha in Europa, e a dimostrarlo c’è una pattuglia di oltre cinquanta nuovi deputati che entreranno nella Knesset.

Basta scorrere le loro biografie pubblicate sul sito di Yediot Ahronot  per farsi un’idea della fase di transizione che attraversa la società israeliana. Non ci sono solo giornalisti, in Israele come in Italia i professionisti più ricercati per riempire le liste dei candidati. Ci sono imprenditori, amministratori locali, persone che lavorano nel settore sociale, esponenti del  movimento delle tende, e via elencando.

La loro presenza cambierà la politica israeliana? Troppo presto per dirlo. È probabile anche che questa Knesset appena eletta sia un agone per misurare il cambiamento, ma non ancora per definirlo. Perché, al fondo, la politica del Palazzo sarà troppo impegnata col  manuale Cencelli, necessario per mettere in piedi un governo e cercare di farlo reggere il più possibile. Un governo di unità nazionale, forse, che salvi Netanyahu, e anche Lapid, dalla spada di Damocle di una Knesset  spaccata, non tanto a metà tra Destra e Sinistra, ma spaccata dai diversi modi di intendere il futuro sviluppo di Israele.

Chi, insomma, si prenderà il carico di una legge finanziaria difficile? Chi deciderà di cambiare il sistema assistenziale israeliano, e secondo quali linee? Chi si scontrerà con lo Shas e con i partitini religiosi per togliere benefit alle famiglie ultraortodosse? E in quale modo i coloni influenzeranno il governo? In maniera trasversale, oppure si concentreranno su un ariete della potenza della nuova star Naftali Bennett, che però non ha il sostegno di tutta la lobby dei coloni?

L’unica cosa certa è che in queste elezioni c’è un solo, grande sconfitto. Si chiama Benyamin Netanyahu, il premier che queste elezioni le ha fortemente volute per rafforzarsi. Il premier che ha rischiato di mettere in pericolo l’alleanza con gli Stati Uniti, intervenendo a gamba tesa nelle elezioni presidenziali che hanno segnato il nuovo mandato di Obama, puntando sull’altro candidato. Il premier che ancora una volta, come è praticamente sempre successo nella sua esperienza politica, ha giocato alto, e ha perso. Netanyahu ha tempo un mese e mezzo per fare un nuovo governo, se il presidente Peres gli darà l’incarico di guidare il nuovo esecutivo. O conquista l’appoggio del centrista Yair Lapìd, oppure Israele avrà forse un altro premier. E questa confusione, questa frammentazione, questa instabilità non fa bene, in questo momento. Né a Israele, né ai palestinesi, né ai siriani.

Fonte: http://invisiblearabs.com
23 gennaio 2013

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