La carta blu dei palestinesi
Tavola della pace
I palestinesi nati a Gerusalemme possono entrare e uscire dalla città grazie alla carta blu, questo non senza difficoltà. Ma è una grande differenza rispetto a chi vive nella West Bank
Sulle scale del Collège de Frères, a pochi passi dalla Porta Nuova di Gerusalemme, Omar, 17 anni, ci mostra la sua carta blu. Non è un documento di identità. Attesta semplicemente che Omar è un palestinese che è nato e vive a Gerusalemme. E questo, rispetto alla totalità dei suoi connazionali della West Bank, fa una grande differenza.
“Con questo documento – dice Omar – io posso uscire ed entrare da Gerusalemme per andare a trovare i miei zii che abitano nella West Bank, a Ramallah”.
Omar può vivere una vita meno isolata a Gerusalemme, può uscire e rientrare nella città, ma questo non vuol dire che sia facile. Rimangono le lunghe attese al check-point, soprattutto al ritorno nella città santa, anche di quattro ore, le perquisizioni, e le confische degli oggetti ritenuti pericolosi.
“I miei zii invece non possono venire a trovarmi – continua – loro vivono a Ramallah e non hanno questo documento. A loro non è permesso entrare in Gerusalemme. Se io per caso dovessi perdere questa carta una volta fuori dalla città non potrei più ritornare a casa mia”.
E’ un documento vitale per i palestinesi di Gerusalemme la carta blu, un documento assegnato secondo i capricci del caso. Chi ha la fortuna di essere nato qui, e di avere i genitori residenti, è automaticamente un palestinese privilegiato, che lo voglia o meno. Perché per Omar, tutti i palestinesi meritano gli stessi diritti, e una terra su cui vivere.
“Io voglio vivere qui a Gerusalemme. Questa è la mia città e la mia terra. Io sono stato in Italia due volte, e ho visto come vivono i ragazzi della mia età. Quando ho raccontato loro le difficoltà e le ingiustizie a cui siamo sottoposti molti sono rimasti sorpresi. Mi chiedono spesso come faccio a rimanere qui, ma io non voglio andarmene. Perché dovrei?”.
Tra le parole, Omar si lascia scappare che ormai è abituato alle lunghe trafile cui è quotidianamente sottoposto. Ma questo non ti fa venire voglia di andare via? di cercare un’altra vita? No. Omar ripete che questa è la sua città, e vuole rimanere qui. Ha le idee chiare per un ragazzo della sua età, forse anche troppo. Ma se c’è una cosa che accomuna israeliani e palestinesi è proprio la caparbietà delle loro prospettive.
Bizzarra Gerusalemme. Quante città ci sono dentro le mura? Troppe. I quartieri storici riflettono una differenza ancora troppo marcata. Al primo piano della palazzina in cui vive Omar risiede una famiglia israeliana, di coloni, come la chiama lui. Di vicini di casa. Ma sono due entità separate. Non si conoscono, non si parlano, non hanno nulla in comune.
Ma conosci qualche israeliano? Tra i tuoi amici?
“No. L’unico che conosco abita a Giaffa. E non ci parliamo”.
In città arabi e israeliani sembrano due entità distinte, invisibili gli uni agli altri, tranne quando partono le scaramucce o le provocazioni. Come all’ingresso della spianata delle moschee, dove un soldato israeliano impedisce l’accesso. Per arrivare alla Cupola della Roccia si deve prendere un’altra strada, più lunga. Perché? Subito esplodono le discussioni tra i palestinesi che vogliono passare e i militari. Alla fine ci è concesso di arrivare in cima agli scalini e scattare qualche foto, niente di più. Ma la scena più violenta è un’altra. Quando per la stessa strada si avvicina un ebreo ultra ortodosso. Appena lo vede, il militare lo blocca facendolo scendere dalle scale che conducono alla grande spianata, in modo che non sia visibile dall’altra parte. L’uomo ubbidisce senza contestare. Ma rimane in piedi, fermo, davanti all’ultimo gradino, in atteggiamento di preghiera. Una provocazione, tanto silenziosa quanto violenta. Non sortisce effetto. Passati una decina di minuti, l’uomo vestito di nero e col cappello si allontana dalla strada da cui era venuto.
La città è un dedalo di mercatini e di scene che sembrano allestite apposta per i turisti, come i bambini palestinesi che rincorrono un pollo che corre bloccato dalle gambe dei ragazzi e alla nostra vista urlano 1 dollaro per una foto, o i mercanti delle botteghe che rincorrono i passanti e li avvinghiano in lunghe trattative per vendere orecchini, braccialetti o un souvenir in cambio di pochi shekel.
E poi Ariel. E’ in piedi fermo davanti ad una porta da cui entrano ed escono ragazzi di pochi anni o adolescenti. Avrà non più di 25 anni, ricetrasmittente al collo e pistola alla cintura. Qual è il punto di vista di un ragazzo israeliano del conflitto?
“Noi vorremmo la pace, siamo aperti nei confronti dei palestinesi. Le nostre università li accolgono, possono girare nei nostri quartieri, noi non abbiamo nulla contro di loro, eppure noi non siamo i benvenuti nelle loro vie e nei loro istituti. Se io girassi da solo per le strade della loro zona mi accoltellerebbero. Noi dobbiamo difenderci. Se loro fossero disposti a sedersi ad un tavolo e trattare potremmo parlarne. Ma loro non vogliono”.
La sicurezza è il cruccio di Israele. Ma cosa ne pensa Ariel del muro di Betlemme e dell’impossibilità dei palestinesi di vivere una vita normale? Della loro prigionia quotidiana?
“Quando siamo arrivati qui – dice – loro ci hanno dichiarato guerra e ci hanno attaccato senza sosta. Queste sono le conseguenze delle loro azioni. Non dico che mi piace, ma non vedo cos’altro si potrebbe fare”.
E il futuro?
“E’ una domanda difficile. Non lo so. Spero che le cose si risolvano. Ma secondo me ci vorranno molte generazioni”.
Stefano Rossini