Giornata ONU: dopo 67 anni si aspetta la riforma


Miriam Rossi


In occasione della Giornata delle Nazioni Unite, si impone una riflessione sulla crisi del multilateralismo, che può essere attribuita anche alla mancanza o all’inefficacia delle riforme dei suoi organi.


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Un compleanno fornisce spesso l’occasione per stilare un bilancio dell’anno trascorso, sommando successi, elementi critici e valutazioni disparate circa i propri obiettivi. Ciò vale anche per l’Onu, di cui oggi ricorre l’entrata in vigore dello Statuto, istituzionalizzata appunto come Giornata delle Nazioni Unite. Forse così ci si auspica che sia, specie nella fase di forte crisi che sta attraversando oggi il multilateralismo.

Una proficua riflessione sulla governance dell’Organizzazione e sull’esigenza di una sua pronta riformulazione cede invece il passo a una Giornata di celebrazioni e di promozione, costituendo un’ulteriore occasione per riaffermare da una parte i valori e gli obiettivi dell’Onu e, dall’altra, la fede e l’impegno in tal senso degli Stati membri. Si preferisce quindi rimarcare gli elementi di unione anziché quelli di contrasto. Paradossalmente, infatti, a una condivisione globale dei valori e degli obiettivi che le Nazioni Unite si diedero nel lontano 1945, in un contesto geo-politico, istituzionale, economico e demografico assai differente da quello attuale, e nonostante gli adattamenti alle mutate circostanze, non si è prodotta una efficace riforma delle strutture societarie che tali obiettivi debbono perseguire e che tali valori debbono incarnare.

La riforma nel 2006 della Commissione Onu per i Diritti Umani, con la trasformazione della stessa in Consiglio per i Diritti Umani, ha mancato un doppio obiettivo: sia di avere un organo più agile attraverso una riduzione dei suoi membri (passati da 53 a 47) e un aumento delle sessioni di riunione, sia di creare una struttura con potere decisionale più forte. Il Consiglio pecca patologicamente di mancanza di credibilità, come la precedente Commissione. Tempestata di accuse di scarsa obiettività nelle sue risoluzioni, specie nei riguardi dello Stato di Israele, la sua composizione continua a lasciare molto a desiderare in quanto ai “campioni di tutela dei diritti umani” che ne sono membri. Nel suo rapporto 2012, la Freedom House ha indicato ben 12 membri del Consiglio in carica (Camerun, Cina, Cuba, Giordania, Arabia Saudita, Angola, Federazione Russa, Mauritania, Gibuti, Libia, Qatar e Congo) tra i principali violatori dei diritti umani; a questi si sommano anche una decina di Stati definiti “partly free” (come Bangladesh, Messico e Nigeria). L’autorevole organizzazione ha inoltre evidenziato come un terzo dei candidati 2012 non abbia i requisiti per poter accedere al ruolo, e che anzi la loro situazione debba essere oggetto dell’azione del Consiglio per le gravi mancanze e violazioni sul piano dei diritti umani. Tali dati evidenziano quanto la riforma del 2006 sia stata del tutto inefficace, non avendo la comunità internazionale né il coraggio né la forza di operare una modifica dello status dei delegati, sostituendo i rappresentanti degli Stati membri con esperti che agiscono a titolo individuale. Questa sarebbe stata la sola modifica sostanziale che avrebbe dato credibilità all’organo e alla sua azione a costo di una ulteriore riduzione della sovranità degli Stati che, per questa ragione, la osteggiarono fortemente.

Rigurgiti di politica di potenza sottendono ancora all’azione degli Stati membri e dunque alle dinamiche dell’Onu. Ciò è tanto più vero nell’ambito delle sicurezza collettiva. Il perno dell’intero sistema, come noto, è costituito dal Consiglio di Sicurezza, l’unico organo che può “autorizzare” l’uso della forza armata per dirimere le crisi che mettono a rischio la pace e la sicurezza globali. La struttura stessa del Consiglio, retaggio dell’assetto post-bellico sancito dalla seconda guerra mondiale, ricalca vecchi schemi del “concerto delle Grandi potenze”, con 5 membri permanenti dotati di diritto di veto e 10 (sui restanti 188 Stati membri) a rotazione biennale. Anche in questo caso la credibilità dell’organo circa la legittimità o meno di un intervento armato sullo scenario globale è limitata dalla cristallizzazione della situazione di privilegio di cui godono Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Federazione Russa e Cina. Nonostante la riforma della governance del Consiglio di Sicurezza sia considerata universalmente essenziale per migliorarne il grado di partecipazione, la rappresentatività geografica, il carattere democratico, l’efficienza, e sia inoltre al centro di un dibattito fervido ormai ventennale, la sua realizzazione appare davvero lontana.

Ci si domanda d’altra parte quanto questa riforma possa arrestare un processo di reiterato scavalcamento dello stesso Consiglio e del sistema di sicurezza dell’Onu messosi in moto dai primi anni Novanta. La fine delle guerra fredda ha deluso infatti le aspettative di quanti rinvenivano nella strumentalizzazione politica che ne avevano fatto le superpotenze la ragione del sostanziale stallo del Consiglio di Sicurezza. In un quadro internazionale piuttosto incerto, acceso proprio dalla conclusione dell’ordine bipolare, sempre più spesso gli Stati membri hanno partecipato a missioni di peace-keeping, peace-enforcing, peace-building messe in campo da organizzazioni regionali o da gruppi di Stati, con o senza l’autorizzazione dell’Onu, accordando loro la preferenza rispetto alle iniziative societarie. L’intervento della Nato in Kosovo nell’aprile 1996, a cui il Consiglio di Sicurezza diede il proprio consenso ex post, ha segnato un sensibile ridimensionamento del quadro multilaterale. Una crescente involuzione del ruolo del Consiglio di Sicurezza è da registrarsi a seguito delle vicende dell’11 settembre 2011 e del ricorso alla cosiddetta “guerra preventiva”, che costituisce una contraddizione in termini del sistema di sicurezza collettiva dell’Onu. Le operazioni in Afghanistan e Iraq, avvenute al di fuori della cornice societaria, l’assenza di un intervento nei conflitti incessanti del Corno d’Africa e della regione africana dei Grandi Laghi, o nella più mediatizzata guerra civile in Siria, e, inoltre, il sostanziale arresto del processo di riforma dell’Onu inducono soprattutto oggi a una riflessione globale sul sistema multilaterale esistente e sul suo rinnovamento.

Di pari passo con il mantenimento di certi valori e obiettivi, indicati per sommi capi 67 anni fa nello Statuto Onu, appare impellente l’esigenza di un rinnovamento delle strutture dell’Organizzazione per arrestare la crisi del multilateralismo e della fiducia che la comunità internazionale ripose in esso.

Fonte: www.unimondo.org
24 ottobre 2012  

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