Al Walaje: “Niente compromessi, noi restiamo”


NEAR EAST NEWS AGENCY


Omar Hajajleh del villaggio di Al Walaje vuole restare ad ogni costo sulla sua terra. Un esempio della lotta contro la costruzione del Muro.


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“Vendere la mia casa sarebbe come vendere la mia terra, la mia casa è solo un simbolo della Palestina”. Omar Hajajlah lo dice con una semplicità disarmante, con un ovvietà che ai visitatori italiani venuti nel villaggio di Al Walaje per capirne gli ultimi sviluppi pare incomprensibile. Omar abita in una casa rimasta fuori dal tracciato del Muro di Separazione che le autorità israeliane hanno pianificato per circondare Al Walaje, villaggio all`ovest di Betlemme. Dopo aver rifiutato di abbandonare la propria casa, nel 2010, l’Alta Corte israeliana ha emesso una sentenza in virtù della quale la sua famiglia verrà imprigionata da una barriera elettrificata alta quattro metri, collegata con il villaggio da un tunnel costato 1 milione di euro.

Il Muro di Separazione doveva passare proprio nel cortile di casa sua. “L`esercito israeliano ha esercitato pressioni enormi, prima per demolire la casa, poi con ripetute violenze fisiche per obbligarci ad andarcene”- racconta Omar a Nena News davanti a casa sua, con la colonia israeliana di Gilo e Gerusalemme alle spalle – “Abbiamo intentato una lunga serie di ricorsi in tribunali israeliani, provando la nostra proprietà. Le autorità ci hanno offerto diverse opzioni”- continua con tono pacato – “Un assegno in bianco per vendere la nostra casa, un appezzamento di terra in cambio a Betlemme, e di diventare co-gestore di un hotel che gli Israeliani intendono costruire sul terreno che rimarrà dall`altra parte del Muro. Abbiamo rifutato qualsiasi offerta. Ciò che vogliamo è rimanere sulla nostra terra”.

Omar Hajajlah abita qui con la moglie e tre figli, in una modesta casa contornata di olivi. Nel 2010, arriva la sentenza dell`Alta Corte israeliana, che permette la costruzione di una barriera metallica attorno alla casa e di un tunnel che la colleghi con quella che sarà la prigione a cielo aperto di Al Walaje, provvista di un solo checkpoint di accesso, aperto a discrezione dei militari. Cinque milioni di shekel (circa 1 milione di euro) per evitare che la famiglia Hajajlah abbia accesso a Gerusalemme. “Lavoravo in Israele, ma l´anno scorso “per punzione” mi hanno tolto il permesso di ingresso a Gerusalemme” – spiega Omar – “quindi ora sono disoccupato”. A queste condizioni, tanta risolutezza sembra impossibile.

“Lo so che voi non capite, perché pensate che prima di tutto venga il benessere economico”- continua con tranquillità il padre di famiglia- “ma vendere la mia casa e andarmene a fare la bella vita da qualche altra parte vorrebbe dire tradire la mia patria. La mia casa non è solo la mia casa. E´ la Palestina”.

Al Walaje è un paese di rifugiati riconosciuti dall`Agenzia delle Nazioni Unite UNRWA, fuggiti nel 1947-`48 dalle loro abitazioni originarie, ora invisibili sulle colline dirimpetto annesse allo Stato di Israele. Nonostante si trovi teoricamente entro i confini della municipalità di Gerusalemme, agli abitanti non è stato dato il permesso di residenza, né dunque l`accesso ad Israele e ai servizi sociali. Ora tutto il villaggio – per mano del consiglio comunale – è impegnato nella lotta contro il piano di costruzione del Muro. Secondo il nuovo piano dell`Amministrazione Civile israeliana datato luglio 2012, pervenuto al villaggio dopo mesi di insistenze, la barriera di cemento alta otto metri avrebbe un`apertura verso il paese vicino di Battir. Ma in direzione della città di Betlemme, dove tanti degli abitanti vanno a scuola o lavorano, sarà chiuso dal checkpoint. Un passaggio “non affidabile” secondo Shirin del consiglio comunale. L`esercito israeliano aprirà e chiuderà il varco a suo piacimento, come accade in altre realtà della Csigiordania, non permettendo un traffico fluido. E spingendo così chi non puó permettersi di mancare al lavoro o a scuola, a trasferirsi e abbadonare Al Walaje.

“Noi restiamo qui” – dichiara fermo Omar – “E invece che nel mito della comodità economica, continuiamo ad educare i nostri figli nell`ideale che prima di tutto, e prima di noi individui, viene la nostra terra”.

Fonte: http://nena-news.globalist.it
27 Agosto 2012

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